Mese: <span>Dicembre 2016</span>

Dipendenza da cibo

Il legame tra nutrimento ed emozione.

Sei al ristorante con gli amici. Arriva il cameriere che comincia ad elencare i primi piatti e lo fa con tale maestria e minuziosità che cala il silenzio, in un tavolo in cui qualche secondo prima era impossibile comunicare persino con chi ti era seduto vicino. Anche al tavolo accanto le persone che sono arrivate dopo e non hanno ancora ordinato, smettono di parlare e origliano attirate da un particolare cibo che li ha ipnotizzati. Quando il cameriere finisce di elencare il menù sei indeciso tra 4/5 pietanze, tanto che o gli chiedi di ritornare più tardi perché hai bisogno di una pausa di riflessione, oppure parte la consultazione tra amici: “Tu che cosa prendi?”.

Se ragioniamo sull’importanza che il cibo ha nelle nostre vite, è facile capire perché ne siamo sedotti. In fin dei conti ancor prima di nascere, all’interno del grembo materno noi ci nutrivamo! Il modo in cui mangiamo da quel momento in poi, si modella durante l’arco della nostra vita in base ai gusti, ai profumi ed alle preferenze dei cibi. In tutto questo gioca un ruolo fondamentale la nostra memoria: chi non è affezionato al ricordo della merenda preparata dalla nonna? O al nostro piatto preferito trovato al rientro dalla scuola?

Non a caso utilizzo il termine “affezionato”, perché è proprio la componente emotiva dei nostri ricordi che rende quei pasti ancora oggi più desiderabili rispetto ad altri. Per non parlare di quanto l’alimentazione influisca nell’ambito relazionale: è parte integrante dell’inizio del rapporto madre/bambino attraverso la suzione del seno materno, viene utilizzato spesso come mezzo grazie al quale instaurare o consolidare rapporti di amicizia o sentimentali, con la classica “cena in pizzeria”, riunisce intere famiglie intorno ad una tavola nei giorni di festa…e così via! Insomma in qualche modo siamo tutti “dipendenti” dal cibo. Senza di esso smetteremo di esistere.

Vi sono però delle modalità di alimentazione che si allontanano dal “compito” principale degli alimenti, ossia la nutrizione, e si modificano assumendo delle particolari modalità che divengono patologiche, e a loro volta potrebbero generare ulteriori disturbi. Per molti di noi umore ed alimentazione sono inscindibili: c’è chi sotto un forte stress prima degli esami svuota il frigorifero e chi invece non tocca cibo, ma sono reazioni diverse allo stesso stato emotivo. E da qui si potrebbero fare numerosi altri esempi: sono triste? Mangio! Mi annoio? Mangio! In linea di massima queste componenti sono presenti in parte in ognuno di noi, ma possono diventare un problema quando sfuggono totalmente al nostro controllo, non rispondendo più ai criteri di fame e sazietà. Le caratteristiche di alcuni tipi di comportamento alimentare sono simili a quelle tipiche di chi abusa di altre sostanze. La persona usa sempre lo stesso rituale: sente il bisogno di comportarsi in un determinato modo ed al tempo stesso è consapevole di non poter resistere a questo impulso, che potremmo chiamare compulsione. Avverte una tensione emotiva crescente, che precede l’inizio dell’atto compulsivo (craving); il passo seguente è lo svolgimento dell’atto, con la tensione che si allenta progressivamente mentre viene raggiunto l’appagamento. La conclusione del rituale è caratterizzata dalla consapevolezza di aver perso ancora una volta il controllo ed è seguita dai sensi di colpa, dal disgusto, fino al disprezzo ed alla rabbia verso se stessi. La ripetizione ciclica di questo comportamento, nonostante le evidenti conseguenze negative, rappresenta il meccanismo della dipendenza. I cibi che vengono consumati durante questo tipo di abbuffate sono generalmente ad alto contenuto calorico e spesso dolci; è difficile sentir dire “ero triste, ho aperto il frigorifero e mi sono mangiato un piattone di insalata!” Questo avviene senza dubbio in base alla reazione chimica che quei determinati cibi provocano nel nostro organismo, ed anche per la risposta emotiva, seppur temporanea, di piacere che procurano.

Ma si può realmente paragonare l’abuso di sostanze stupefacenti all’abuso di cibo? Pare proprio di sì! Diversi studi neurobiologici hanno dimostrato come l’uso di cocaina provoca in alcune aree del nostro cervello, il rilascio di dopamina, uno dei principali neurotrasmettitori coinvolti nel meccanismo del piacere e della ricompensa: la stessa cosa avviene anche dopo aver ingerito del cibo. Persone che fanno abuso di cocaina presentano appunto una ridotta sensibilità dei sistemi dopaminergici, la stessa che è stata riscontrata negli individui obesi.

Per approfondire:

Piccinni A. (2012). Drogati di cibo. Quando mangiare crea dipendenza. Milano: Giunti Ed.

Solano L. (2001). Tra mente e corpo. Come si costruisce la salute. Milano: Raffaello Cortina Ed.

L’orientamento spaziale. Uomini e donne sono diversi?

Gli uomini hanno una capacità di orientamento nello spazio superiore a quella femminile? “Mia moglie non ha alcun senso dell’orientamento, per questo guido sempre io…” Questo è quello che le dicerie comuni affermano da tempo ma, prima di svelare se il mito corrisponde a verità, facciamo un passo indietro: cosa vuol dire orientarsi nello spazio?

Gli esseri umani hanno la facoltà di imparare e ricordare le informazioni sulle relazioni spaziali nel mondo ai fini dell’adattamento. Immaginiamo quanto fosse importante sviluppare questa capacità quando non esistevano strade o mappe che ci aiutassero a tornare a casa. Gli individui percepiscono informazioni direttamente dall’ambiente e si orientano in esso, aggiornando continuamente il loro rapporto con gli oggetti che li circondano mentre si muovono nello spazio, integrando le informazioni da diverse prospettive per fornire un senso di spazio unificato. L’abilità degli umani ad apprendere e manipolare l’informazione spaziale ha ricevuto negli anni sempre più attenzione e oggi sappiamo che esistono due modi in cui gli esseri umani acquisiscono e usano l’informazione spaziale: attraverso un apprendimento primario e uno secondario. L’apprendimento primario (cioè diretto) si ha quando l’individuo interagisce direttamente con l’ambiente circostante, creando un senso di spazio vicino, rispetto al quale può agire direttamente.

L’apprendimento secondario (cioè indiretto) si riferisce a tutte le informazioni su cui l’individuo non  può agire direttamente. In genere riguarda i concetti spaziali più astratti, quali l’uso di mappe e figure. Esistono importanti differenze nel modo in cui l’informazione spaziale è rappresentata e usata e queste differenze dipendono da come l’informazione stessa viene appresa. Ciò può avvenire in modo simultaneo (osservando mappe o comunque immagini) o può essere costruita nel corso di successive interazioni con l’ambiente (come nella navigazione). Le diverse prospettive che la persona può assumere durante l’apprendimento quando naviga realmente nell’ambiente rendono più semplice la rievocazione nella memoria di quel percorso.

Come dicevamo precedentemente, è opinione comune che tra i fattori interni coinvolti nella rappresentazione dello spazio, vi sono anche le differenze di genere. Secondo Lawton (1996) i maschi sono più fiduciosi delle femmine nelle loro abilità di senso dell’orientamento. Allo stesso modo, alcuni esperimenti rivelano che le femmine sono più ansiose dei maschi quando navigano.

L’ “ansietà spaziale” o ”la paura di perdersi” può ridurre la capacità di concentrarsi sui suggerimenti essenziali per mantenere l’orientamento geografico. Sempre recentemente è stato dimostrato che differenze di genere possono essere presenti nella formazione di una mappa cognitiva e che tali differenze sarebbero legate alla difficoltà delle donne nei compiti di rotazione mentale. Tali differenze si manifestano, però, solo ed esclusivamente nell’ambito delle immagini mentali e per la navigazione sono specificamente limitate alla fase di apprendimento di un percorso, mentre sembrano scomparire nel momento in cui la mappa cognitiva viene memorizzata. Quindi le diversità tra i sessi nel rievocare un percorso riflettono l’uso di diverse strategie di apprendimento, piuttosto che di diverse capacità.

Per rispondere alla domanda iniziale se gli uomini siano più capaci delle donne nei compiti di orientamento, si può rispondere che i primi utilizzano strategie di apprendimento più semplici e quindi velocemente riproducibili, ma una volta che entrambi hanno memorizzato un determinato percorso non si riscontrano differenze di genere. Per par condicio va detto che questa abilità di apprendimento più veloce sperimentata nel genere maschile riguarda solo i compiti spaziali che coinvolgono l’emisfero cerebrale destro. Viceversa la donna ha la capacità di apprendere l’uso del linguaggio più velocemente rispetto all’uomo e questa è invece prerogativa dell’emisfero cerebrale sinistro. Sarà questa l’ennesima dimostrazione del mito delle due metà descritto da Platone?

Per approfondire:

Lawton C. A., (1994). Gender differences in way-findings strategies: relationship to spatial ability and spatial anxiety. Sex Roles, 30(11/ 12), 765–779.

Lawton C. A., (1996). Strategies for indoor way-finding:the role of orientation. Journal of Environmental Psychology, 16, 137–145.

Villani, D. (2001) L’orientamento in alcuni paesi europei. Roma: Monolite Ed.

Stress da vacanze: invenzione dei media o realtà clinica?

Chi non ha mai sentito parlare di stress da vacanze?

Come psicologo posso riportare innumerevoli esempi di pazienti che al rientro dalle vacanze trascorse in famiglia hanno lamentato livelli di stress aumentati e un peggioramento netto del tono dell’umore.

I media, nel periodo immediatamente precedente e successivo alle vacanze, invernali ed estive, ci sommergono con articoli, vignette e statistiche riguardanti lo stress da festività. Ci indicano come poterci risollevare al meglio, alla stregua delle diete detox per riprendersi dai bagordi alimentari natalizi.

Ma lo stress “feste-correlato” esiste davvero come fenomeno clinico, o è solo un’invenzione dei media?

Questo articolo si prefigge lo scopo di fornire una risposta a questo quesito, presentando un breve, ma stimolante sunto, di quanto si è indagato finora su questo fenomeno. Un fenomeno molto di moda nei salotti mediatici e virtuali, ma non molto conosciuto ed esplorato a livello clinico. Forse risente di un pregiudizio accademico, che vede un simile argomento appartenere di più alle colonne di una rivista di moda femminile? Eppure, come scopriremo tra poco, molti studiosi si sono interessati a questo argomento, sebbene ci sia ancora tanto altro da esplorare.

Diversi studi riportano svariati “effetti collaterali da vacanze” dovuti allo stress vacanze correlato, che includono problemi di salute, nostalgia, preoccupazioni varie, e problemi relazionali. (Kop, Pearce, Van Heck e Vingerhoets). Secondo uno studio dell’università di Rotterdam e di Breda, il quale ha indagato cosa determini la felicità durante i giorni di vacanza, i vacanzieri sperimenterebbero effetti positivi sull’umore. Ma questo dato sarebbe anche determinato dal loro equilibrio emotivo più stabile nel tempo, ovvero chi sperimenta solitamente un tono dell’umore più alto durante tutto l’anno, tende ad esserlo maggiormente durante le vacanze. Le determinanti più importanti rispetto alla felicità durante le vacanze sarebbero le stress percepito e la disposizione a divertirsi.

Uno studio precedente dell’università di Kuopio, in Finlandia, ha investigato il sollievo dallo stress sperimentato da un campione di insegnanti liceali durante il periodo delle festività. Uno dei risultati più significativi riportati è che il valore della pressione sanguinea decrementa rispetto ai giorni lavorati, e che il riposo durante il fine settimana non è sufficiente per ottenere questo risultato. Tutti i soggetti hanno inoltre riportato un livello di stress minore durante le vacanze. Un altro studio di Dov Eden ha misurato i livelli di stress in un campione di lavoratori, misurandolo in quattro intervalli di tempo, prima durante e dopo le vacanze. I risultati hanno mostrato come i soggetti percepissero le vacanze meno stressanti del lavoro, ma i livelli di tensione e sforzo risultavano identici a quelli esperiti durante i giorni feriali.

Questo interessante dato viene però non confermato da uno studio successivo di Westman ed Etzion, le quali hanno indagato l’impatto delle vacanze sullo stress lavoro correlato, il burnout e l’assenteismo in un campione di lavoratori israeliani tramite un questionario. Secondo questa indagine sia lo stress che i livelli di burnout e assenteismo diminuiscono notevolmente grazie alle vacanze.

Uno studio più recente di Strauss-Blasche ha esplorato invece gli effetti moderatori delle vacanze sulla reazione soggettiva allo stress domestico e lavorativo, con un questionario somministrato dieci giorni prima e tre giorni dopo un periodo di ferie di due settimane, trascorse a casa, in un campione di operai tedeschi. Dallo studio emerge che lo stress domestico ha effetti sul sonno, le attività sociali e il tono dell’umore prima e dopo le vacanze. I soggetti che mostravano un maggior livello di recupero erano quelli che lamentavano meno problemi fisici legati allo stress lavoro correlato e domestico, e che presentavano un livello di soddisfacimento generale della qualità della loro vita più elevato. In conclusione le vacanze non mostravano avere un impatto su questi fattori, lasciando ipotizzare che la nostra percezione generale dello stress, della soddisfazione e dei problemi somatici ha un enorme impatto sul nostro umore e sulla nostra capacità di rilassarci in vacanza.

Nel 2010 Nawijn, Marchand, Veenhoven e Vingerhoets, studiosi di ricerca applicata sulla qualità della vita, hanno indagato i livelli di felicità nei vacanzieri, somministrando un questionario a più di 1500 olandesi, prima e dopo le loro vacanze. Il costrutto di felicità è stato definito dai colleghi un riflesso di come ci sentiamo di solito, quindi come una caratteristica stabile della persona, nonché un indicatore del soddisfacimento delle nostre necessità. I risultati di questo studio hanno rilevato un elevato grado di felicità pre-vacanziera, ma solo coloro i quali vivevano delle vacanze molto rilassanti mantenevano questo livello di felicità elevato anche al ritorno. Ci è facile immaginare come una vacanza a Bora Bora in totale relax possa farci sentire felici, ma come la mettiamo con le vacanze di natale? Come afferma il detto “Natale con i tuoi…” nella tradizione culturale italiana le vacanze natalizie si trascorrono generalmente in famiglia, in compagnia di parenti stretti e non. In queste condizioni cosa succede ai livelli di stress?

Molto dipende dalla qualità delle relazioni esistenti tra i membri delle famiglie, ed è forse questa la variabile che andrebbe tenuta in considerazione in un futuro studio su questo interessante, ma stigmatizzato argomento. Inoltre, come è emerso dai risultati di diversi studi presentati, le caratteristiche di personalità, la nostra percezione soggettiva dello stress e la nostra predisposizione a divertirci sono altri elementi determinanti nella nostra capacità di stare bene in vacanza. In altre parole alcuni tratti stabili del nostro modo di essere, uniti alla nostra percezione dello stress e al nostro tono dell’umore possono influire in larga misura sulla nostra percezione delle stress da vacanza, e la percezione dello stress ha a che fare con la nostra capacità di fronteggiare gli eventi della vita, normativi o meno che siano, vacanze comprese. Il miglior consiglio che si potrebbe dare al riguardo da un punto di vista psicologico potrebbe essere quello di fare un lavoro su se stessi a lungo termine, per poter mobilitare le nostre migliori risorse, in vacanza come il resto dell’anno.

Articolo del Dott. Andrea Rossetti

Per Approfondire:

Don Even, Acute and Chronic Job Stress, Strain, and Vacation Relief.ACAD MANAGE PROC August 1, 1987, pages 186-190;

Mina Westman & Dalia Etzion, The impact of vacation and job stress on burnout and absenteeism, Journal Psychology & Health Volume 16, 2001 – Issue 5, pages 595-606;

 Gerhard Strauss-Blasche, Cem Ekmekcioglu & Wolfgang Marktl, Moderating Effects of Vacation on Reactions to Work and Domestic Stress, Leisure Sciences  An Interdisciplinary Journal, Volume 24, 2002 – Issue 2, pages 237-249;

Tiina Ritvanen, Tomi Laitinen, Osmo Hänninen, Relief of Work Stress after Weekend and Holiday Season in High School Teachers,

Journal of Occupational HealthVol. 46 (2004) No. 3, pages 213-215

La violenza sulle donne

Durante il periodo dell’università mi è capitato di lavorare in un centro di pronta accoglienza per donne con minori in qualità di operatore sociale. Un luogo nato per rispondere, con accoglienza immediata, all’urgenza del bisogno e alle esigenze di protezione e di aiuto a donne singole e a madri con figli minori. Questa struttura rappresenta un rifugio da situazioni di disagio sociale, economico e in alcuni casi di violenza domestica. Ricordo che il mio primo turno fu di notte: ero agitato, poiché mi ero preparato psicologicamente al fatto di trovarmi in un ambiente triste, dove la tensione si sarebbe avvertita nell’aria. Arrivai alle 20:00 e cominciai a salire i gradini che conducevano all’ingresso del centro, che era situato al primo piano di uno stabile.

Quando giunsi fuori dalla porta, feci un bel respiro ed entrai. La scena che mi si presentò davanti mi lasciò a bocca aperta: erano tutti a tavola a cenare, in un’atmosfera festosa e allegra; sei bambini di età compresa tra i 2 e i 9 anni saltarono letteralmente giù dalla sedia e mi vennero incontro per abbracciarmi e farmi mille domande: “come ti chiami tu?”, “quanti anni hai?”, “resti con noi stasera?”. Senza nemmeno avermi mai visto erano così affettuosi, espansivi…solo in seguito ragionai sul fatto che ero l’unico operatore uomo a lavorare lì e che questo aveva probabilmente provocato in loro quello stato di eccitazione e stupore. Le mamme mi offrirono una fetta di torta cucinata da loro in occasione del compleanno di una bimba che stavano festeggiando e mi proposero di sedermi a tavola, accettai volentieri e mi fecero sentire proprio come a casa!

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Purtroppo avrei voluto vederli sempre sereni come quella sera ed io e le mie colleghe ci adoperavamo in ogni modo affinché lo fossero, ma sono situazioni molto delicate ed i momenti di tensione non mancavano. Come nel caso di M. una donna italiana fuggita insieme alla sua bambina di un anno dalle violenze del marito, il quale però non volendo rinunciare al dominio psicologico nei confronti della moglie, raggiunto dopo anni ed anni di aggressioni e umiliazioni, continuava a cercarla e a tempestarla di telefonate, facendola vivere in un continuo stato di agitazione e tensione. Questa è una delle tante storie che durante quell’anno ebbi modo di conoscere e che mi fecero capire quanto estesa fosse questa piaga della violenza domestica, mi portarono a volermi documentare di più su tale argomento.
La violenza contro le donne, da sempre esistita, è un problema sollevato solo a partire dalla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti dal movimento femminista, accolto in seguito dalla ricerca accademica, e infine legittimato dagli organi politici nazionali e internazionali. Prima del movimento femminista, il fenomeno non era considerato socialmente rilevante! I Rifugi per donne maltrattate, come quelli che esistono adesso, cominciarono a sorgere solamente dagli anni ’70 in poi in risposta all’attivazione del movimento femminista. In realtà esistevano già nel 1500 in molte città, accogliendo donne il cui matrimonio non era andato a buon fine e che non potevano restare a casa a subire le violenze del marito.

La differenza a quell’epoca risiedeva nel fatto che quel tipo di strutture, religiose e laiche, anche svolgendo un indubbio ruolo di assistenza, accanto alla simpatia per l’infelicità della donna, le attribuivano comunque la responsabilità per non essere stata capace di avere un matrimonio “corretto”, esortandola a pentirsi per riacquistare la moralità perduta. Si trattava della risposta di una società patriarcale al problema, che aveva lo scopo di far sì che la violenza rimanesse un fatto privato, che fosse concepita come un fatto privato, da non essere esposto al pubblico; l’obiettivo, dal punto di vista sociale, era preservare la sacralità della famiglia e l’onore dei mariti. Sebbene dalla fine degl’anni ’60 ad oggi qualcosa sta cambiando, molto c’è ancora da fare! Per molti aspetti, questa società pone le sue fondamenta, la sua struttura millenaria in una concezione patriarcale. Per esempio, solo da poco è stato consentito alle donne l’accesso ad ambiti considerati da sempre prerogative maschili, anche se ancora non a tutti.

Per non parlare del controllo delle donne sulla propria sessualità: io personalmente tramite il mio lavoro sono venuto a conoscenza di situazioni familiari in cui la donna subisce pressioni continue dai suoi genitori per portare avanti un matrimonio infelice al fine di non creare lo scandalo di un divorzio e se ciò non bastasse, a soddisfare comunque le esigenze sessuali del marito, e stiamo parlando del 2015 non del 1500! Si potrebbero portare altri mille esempi, ma il punto è che l’unico modo di affrontare il problema socialmente sia attraverso l’informazione e il sostegno istituzionale.
A tutto questo c’è da aggiungere un altro aspetto: una componente psicologica che subentra spesso nelle situazioni di violenza domestica. Una cosa ricordo mi colpì particolarmente, mentre lavoravo al centro: vedere come anche dopo anni di violenze subite, queste donne non riuscissero a spezzare il legame nei confronti dell’uomo che le aveva maltrattate. Non riuscivo a capacitarmene! Questo perché ignoravo cosa avviene a livello psicologico: la violenza subita, quando è quotidiana, familiare, abituale, pian piano diventa normale si cronicizza e colui che la subisce sviluppa tolleranza, mette in atto strategie di adattamento che possono addirittura condurre ad autocolpevolizzarsi e all’emarginazione sociale. Tutto ciò comporta la difficoltà della vittima anche solo di concepire l’idea di denunciare l’abuso ed anche quando si è raggiunto quel traguardo vi è la difficoltà di dover riconfigurare una situazione in qualche modo psicologicamente strutturata per cui il rischio di ritorno nella relazione violenta appare molto alto. È per questo che nelle strutture come i centri antiviolenza è importante l’integrazione del lavoro di diverse figure professionali tra le quali psicologi, operatori sociali e assistenti sociali ed è importante fornire servizi di sostegno per un periodo successivo all’uscita della donna dal centro, poiché aumenta la probabilità di restare fuori dalla violenza. Si dice che ogni esperienza lavorativa sia importante nella formazione professionale, per quanto mi riguarda non fu solo a livello professionale, ma anche umano e morale. Ogni volta che ricordo i momenti passati lì mi vengono in mente le ospiti del centro, donne che portavano sulle spalle due responsabilità enormi: riuscire a superare un momento così difficile e contemporaneamente preservare i figli da tale peso, facendogli condurre una vita serena…e questo sarebbe il “sesso debole”!

Dott. Andrea Rossetti