Mese: <span>Aprile 2017</span>

Depressione – una condizione ontologica dell’uomo?

Depressione – una condizione ontologica dell’uomo?

 

Francis Bacon, Study after Velàsquez’s Portrait of Pope Innocent X, 1953

 

“La sofferenza è una specie di bisogno dell’organismo di prendere coscienza di uno stato nuovo.” Lo scrisse Marcel Proust, nel terzo volume dell’opera “Alla ricerca del tempo perduto”. La sofferenza è spesso accomunata all’atto della conoscenza, all’avvicinamento alla verità della condizione umana. In termini più psicologici e meno filosofici essa potrebbe essere ben descritta con la definizione fornita da Melanie Klein della posizione depressiva. Secondo l’Autrice il bambino è un essere immerso in un universo di emozioni disturbanti, di angosce disgreganti, dalle quali egli si difende allucinando l’oggetto in grado di procurargli un sollievo, ovvero il seno buono. Tutto ciò che è associato con lo stato di frustrazione sperimentato dal bambino viene identificato come seno cattivo, l’assenza stessa della madre diviene una sua manifestazione, come pure gli stati fisiologici dolorosi interni. “L’insieme dei desideri istintuali e delle fantasie inconsce fanno si che al seno vengano attribuite delle qualità che vanno ben oltre il nutrimento che esso in realtà fornisce.” Lo sviluppo psicologico del bambino viene descritto dalla Klein come un passaggio tra due differenti posizioni. Per posizioni ella intende uno stato di organizzazione dell’Io in rapporto alle sue relazioni con gli oggetti, alla natura dell’angoscia e alle difese che vengono attivate per controllarla.

Durante i primi quattro mesi di vita il bambino si troverebbe nella posizione definita schizoparanoide, in cui egli sperimenta le prime relazioni con gli oggetti, ma non sono oggetti interi, bensì parziali. Nel bambino esiste già un conflitto generato dall’opposizione tra pulsione libidica e pulsione di morte. L’Io del bambino si protegge dall’angoscia derivante dalla pulsione di morte proiettandone una parte sull’oggetto esterno definito come seno cattivo, mentre un’altra parte è trattenuta all’interno dell’Io e trasformata in aggressività.  Il seno cattivo coesisterà con quello buono in una rappresentazione scissa della madre. Il superamento di questa posizione avviene quando il bambino riuscirà ad integrare il seno buono e quello cattivo in un unico oggetto, altro da sé, separato e distinto, esistente al di là del suo volere e desiderio, in relazione con gli altri oggetti. La madre è sia buona che cattiva, esattamente come il bambino, che viene colto da una nuova angoscia. Non più di poter essere distrutto dall’oggetto, ma di poterlo danneggiare e distruggere con la propria aggressività. Per la prima volta, nella seconda metà del primo anno di vita del bambino, egli sperimenta la separazione e la preoccupazione per l’altro, accedendo alla posizione depressiva. Dalla sofferenza per aver distrutto la madre il bambino apprende la possibilità di riparare l’oggetto. Nonostante l’integrazione dell’Io in questa fase egli non si libererà mai dall’ambivalenza, dalla coesistenza contemporanea di pulsioni di segno opposte per lo stesso oggetto, ma come scrisse Melanie Klein: “(…) quando l’amore può coesistere con l’odio che è stato scisso e con l’invidia, questi sentimenti diventano sopportabili e diminuiscono, in quanto mitigati dall’amore.”

Rileggendo le parole di Proust a proposito della condizione di sofferenza legata all’esperienza umana in senso ontologico, possiamo rileggere le definizioni di Melanie Klein in termini più generali. L’esperienza stessa che l’uomo fa della vita e della realtà si accompagna alla consapevolezza della separazione e della perdita dell’oggetto d’amore primario, simbiotico e parziale, da cui derivava ogni bene. La presa di coscienza della separazione si accompagna alla consapevolezza della nostra stessa capacità di distruggere e ferire e in noi coesistono contemporaneamente senso di colpa e angoscia. È probabilmente questa l’esperienza della depressione, che accomuna l’esistenza umana, dalle sue espressioni meno patologiche a quelle francamente cliniche. La differenza sta nella loro transitorietà, e nella possibilità di sostenere la propria ambivalenza “mitigandola” con la possibilità di provare amore. È forse l’amore che viene a mancare nella condizione depressiva, amore per sé e per l’oggetto, in un delirio di rovina che non lascia scampo alla speranza.

 

Bibliografia:

Vegetti Finzi, Sivia, Storia della psicoanalisi, Milano: Mondadori, 1980

Segal, Hanna, Introduzione all’opera di Melanie Klein, Firenze: Martinelli-Psycho, 1998

Spillius, Elizabeth Bott, Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi, vol. 1. La teoria, Roma: Astrolabio, 1995

PROUST, MARCEL, Alla ricerca del tempo perduto (vol.III), I meridiani, Mondadori, 1989

Ipnosi – l’arte di mettere

Ipnosi

L’arte di mettere

 

 

L’ipnosi, secondo Sigmund Freud, può essere paragonata alla pittura, perché in essa di procede per “via di mettere” anziché per via di levare. Si tratta di uno stadio alternativo a quello di veglia o di sonno, con proprie caratteristiche fisiologiche e di attività neurologica, che viene indotto da un operatore esterno, oppure autoindotta, caratterizzata da uno stato psichico denominato trance. La storia dell’ipnosi inizia nell’era precristiana, che abbonda di esempi di induzione ipnotica attraverso canti e danze rituali. La storia scientifica dell’ipnosi invece può essere fatta inizia da Anton Mesmer che tra la metà del XVIII e l’inizio del XIX secolo propone la teoria del magnetismo animale, secondo la quale alla base della malattia si sarebbe un turbamento della corrente nervosa presente nell’organismo. Successivamente James Braid definì ipnotici i fenomeni che si verificavano nei soggetti “magnetizzati” causati da uno stato di affaticamento cerebrale indotto attraverso tecniche particolari, come quella molto cara al mondo del cinema, della trance indotta attraverso l’oscillazione di un oggetto splendente davanti agli occhi del paziente. Soltanto con il lavoro di Charcot l’ipnosi accede all’ambito scientifico, grazie alle sue ricerche sull’isteria presso l’Accademia delle scienze di Parigi. Charcot ipotizzò che nelle paralisi isteriche, reversibili, come quelle provocate ipnoticamente, dovessero esistere delle lesioni funzionali del sistema nervoso, analogamente a quanto avveniva nelle paralisi organiche, irreversibili, dove esistevano specifiche lesioni cerebrali. Charcot credeva che lo stato ipnotico fosse uno stato isterico provocato artificialmente.

Secondo Hippolyte Bernheim, invece, l’ipnosi era uno stato psicologico e la identificò come uno stato “d’accentuata suggestionabilità”, dipendente dalle caratteristiche del soggetto, dall’influenza esercitata dall’operatore e dai suggerimenti che da al paziente. Infine Sigmund Freud studiò i fenomeni ipnotici, essendo stato egli stesso allievo di Charcot, liquidandoli però velocemente come prodotti della suggestione, ed abbandono l’ambito di ricerca dopo essersi dedicato alla psicoanalisi.

Per ipnosi si intende un processo di guida da uno stato di veglia ad uno stato di trance: uno stato mentale naturale, diverso dagli stati di veglia o di sonno, in cui la recettività a stimoli esterocettivi e propriocettivi è dissimile nella elaborazione e nelle possibilità di realizzazione (Di Bertolino R.A., 2012). L’ipnosi può produrre nel paziente il passaggio da uno stato di veglia ad uno stato di trance. Per aiutare il paziente nella trance ipnotica occorre fornirgli suggestioni sensoriali e mentali che suggeriscano uno stato di calma, proponendo stimoli di natura neuro-psico-fisiologica, in modo che il paziente possa abbandonarsi alla trance. La trance ipnotica è uno stato di coscienza naturale, in cui la concentrazione della persona è più centrata, cioè diretta verso di sé, guidata dal terapeuta, permette alla persona di accedere alle risorse personali e trovare un nuovo stato di benessere

Tale stato può essere eteroindotto, tramite ipnosi, permettendo al terapeuta di influire sullo stato del paziente a livelli diversi psichici e comunicativi. L’ipnosi auto-indotta invece, definita autoipnosi, è uno strumento di autoinduzione allo stato di trance che l’individuo adopera autonomamente tramite l’acquisizione di particolari tecniche, o in modo naturale con più o meno consapevolezza.

Ai fini della pratica l’ipnosi può essere applicata:

  • Ipnosi regressiva finalizzata a risolvere traumi o lutti
  • Ipnosi e ipnosi con flooding per risolvere paure o fobie, segnatamente relative ad interventi odoiantrici o a paure di strumenti medici (vd. siringhe e altri)
  • Ipnosi per gestire l’ansia
  • Ipnosi come supporto motivazionale durante processi di dieta
  • Ipnosi per gestire emicrania o cefalee
  • Ipnosi per gestire problemi di enuresi
  • Sostegno ed ascolto psicoagogico
  • Sostegno ed ascolto psicoagogico per pazienti affetti da malattie neurologiche

L’ipnosi consente al terapeuta e al paziente di stabilire un obiettivo da raggiungere, consentendo al cliente di sperimentare nuove skill e schemi di comportamento più efficaci rispetto alla finalità del trattamento durante lo stato ipnotico.

Come affermato in precedenza la trance è uno stato di coscienza diverso dalla veglia e dal sonno, a livello neurologico si osservano valori di attività delle onde θ differenti dagli altri due stati. Diminuzione l’attività dell’amigdala, aumenta l’attività dell’ippocampo, del corpo calloso e degli emisferi sinistro e destro, dalla zona frontale fino a quella occipitale, con un cambiamento di volume del rostrum nella parte occipitale del corpo calloso.

Il processo di induzione ipnotica è qui il protocollo protratto con la finalità di condurre il paziente dallo stato di veglia allo stato di trance. Questo processo può essere condotto con l’ausilio o l’adozione di diverse tecniche ipnotiche, classificate principalmente a seconda dell’uso o meno della componente verbale.

Un ambito attuale e interessante di applicazione dell’ipnosi è la gestione del dolore, post operatorio e cronico. Ai coniugi Hilgard e ai loro studi svolti negli anni ’70 dobbiamo un modello teorico che dimostra l’esistenza di una correlazione diretta tra il grado di ipnotizzabilità di un soggetto e il livello di analgesia che egli può raggiungere in stato di trance. Questo effetto analgesico prodotto dall’ipnosi non ha nulla a che vedere con l’effetto placebo, non è dovuto a stress o ansia o alla suggestione, né all’effetto delle endorfine.

Secondo la teoria neodissociativa lo stato ipnotico determina delle modificazioni nelle strutture di controllo cognitive, per cui i processi cognitivi dell’ipnotizzato non sono più disponibili alla coscienza ordinaria, anche se una parte dissociata dell’io ipnotico, definita come l’osservatore nascosto, mantiene la normale percezione del dolore. A causa di una barriera di comunicazione questa componente cognitiva non si manifesta (covert pain). Una seconda barriera impedisce la comunicazione fra due sottosistemi del dolore: A e B. Al sistema A competono gli indicatori involontari, ad es. quelli cardiovascolari, che perciò continuano a registrare l’esperienza; al sistema B competono le reazioni volontarie come la mimica, i vari atteggiamenti tensivi che vengono esclusi lasciando il paziente rilassato, calmo, senza apparente segno di sofferenza.

 

In sintesi, è attualmente accettato che l’ipnosi svolga il suo ruolo nel controllo del dolore attraverso eventi aspecifici quali la defocalizzazione dell’attenzione, la riduzione dell’ansia associata, e il decondizionamento. L’effetto dell’ipnosi nel controllo del dolore dipende in modo specifico dal grado d’ipnotizzabilità del paziente ed è compatibile con un sistema di controllo elettrico o neurotrasmettitoriale e questo spiega la rapidità con cui l’analgesia può essere indotta o rimossa. La condizione ipnotica sarebbe in grado di modulare dei sistemi sensoriali afferenti come la via paleospinotalamica, sopprimendo anche alcuni riflessi segmentari locali.

In una review dell’efficacia dell’ipnosi nella riduzione del dolore negli adulti con un intervento di tipo psicologico o psicosociale, è stata evidenziata, attraverso metaanalisi la validità delle tecniche ipnotiche nel controllo del dolore in pazienti malati di tumore. De Benedittis et al. hanno dimostrato in un esperimento con dolore ischemico che soggetti altamente ipnotizzabili presentavano un aumento della tolleranza al dolore del 113% verso un incremento di tolleranza di solo il 26% in soggetti scarsamente ipnotizzabili.

 

“L’ipnosi si è dimostrata capace di alleviare sia la componente sensoriale discriminativa dell’esperienza dolorosa, sia la componente affettiva. In soggetti altamente ipnotizzabili è stato osservato un maggior effetto sulla componente motivazionale affettiva dell’esperienza stessa. La scissione tra le due componenti è responsabile della attivazione d’indicatori involontari del dolore quali un aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della frequenza respiratoria, della sudorazione, ecc..” L’ipnosi ci fornisce nuove prospettive e sfide per il futuro, che dobbiamo cogliere nelle loro potenzialità curativa in primis nella gestione del dolore in pazienti cronici, come quelli affetti da patologie oncologiche o da endometriosi. Sta a noi poterle cogliere.

 

 

Bibliografia:

Di Bertolino R.A., (2012). Lo stato mentale di Ipnosi, in AA.VV.,(2012).“Rivista medica Italiana di Psicoterapia e Ipnosi, vol I, gennaio 2012.”, S.M.I.P.I., Bologna.

Antonelli Carlo, Marco Luchetti, Luigi De Trana, (2014) Associazione fra anestesia in ipnosi e anestesia convenzionale. International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 62:4, 483-491

Camillo Valerio, Claudio Mammini, (2009). L’evoluzione clinica dell’ipnosi. Franco Angeli Ed.

 

http://ipnoguida.com