Mese: <span>Luglio 2017</span>

Ultima seduta – the last session

Concludere  un percorso psicoterapeutico, durato magari diversi anni, è l’ultimo atto “terapeutico” che si compie all’interno del setting clinico. Terapeuta e paziente sono giunti al termine del loro percorso comune. In base alla mia formazione, al momento del contratto terapeutico, all’inizio di una psicoterapia o di un percorso di consulenza, non viene fornito un termine, questo perché la relazione è il primo elemento che concorre alla cura della persone che si è rivolta al professionista. All’interno di essa, come attraverso pagine di un romanzo di cui ci siamo limitati a leggere la quarta di copertina, si svolgeranno tutte le vicende, verrà narrata e poi ri-narrata la storia del paziente, verranno messi in atto degli agiti, e la realtà irromperà diverse volte nel setting, ricordando che il qui ed ora è legato inevitabilmente al “lì ed allora” del passato della persona che si trova con noi nel campo analitico.

 

Durante tutto il percorso terapeutico il clinico e il paziente affrontano continuamente la separazione. La fine di ogni seduta è una piccola cesura, che mette alla prova la possibilità di mantenere il rapporto con l’oggetto, anche se esso non è presente fisicamente. Un esempio di una buona relazione oggettuale. Prove più lunghe di separazione e di tolleranza alla frustrazione che essa può indurre nel paziente sono le pause, estive e invernali, che vengono stabilite all’inizio del percorso insieme. La differenza sta nel fatto che questa volta la separazione sarà definitiva. Spesso questa consapevolezza può condurre il paziente a sviluppare diversi tipi distinti di comportamento: nel primo caso mostrerà un atteggiamento di gratitudine nei confronti del terapeuta, altrimenti prenderà in rassegna tutto il loro trascorso insieme, evidenziando colpe e mancanze del clinico. È anche possibile che il paziente sviluppi un una nuova dipendenza verso il terapeuta, producendo fantasie di unione con lui. In ogni caso è importante che la fine della terapia avvenga in modo tollerabile, facendo sì che non vengano riprodotte situazioni traumatiche di separazione di cui la persona possa essere stata oggetto.

Offrire al paziente la possibilità di elaborare le sue reazioni alla fine del percorso terapeutico gli permetterà di riconciliarsi con il clinico, accettandone limiti e mancanze, potendo in tal modo vedere in modo non minaccioso le proprie. Per quanto le reazioni possano essere di diverso tipo, secondo Michael Fordham, alcuni sentimenti tendono a caratterizzare questa fase delle terapie: rimpianto, tristezza e gratitudine. Rimpianto per quegli obiettivi che non sono stati raggiunti, la tristezza per la perdita oggettiva del rapporto con il clinico e infine la gratitudine per ciò che invece è stato fatto. Tutto questo non coinvolge soltanto il paziente, ma anche lo psicoterapeuta, che è stato coinvolto allo stesso modo nel percorso, anche lui “non può sottrarsi alla tristezza della separazione”.

Possiamo affermare che una terapia non finisca con la conclusione delle sedute, perché ogni buon percorso terapeutico continuerà nella mente del paziente, grazie alla capacità di mentalizzazione e di autoanalisi che egli avrà potuto sviluppare all’interno del percorso clinico. Secondo Fordham dopo l’analisi il paziente entra in una fase post – analitica in cui “la sua identificazione con l’analista continua a richiedere un periodico rinforzo prima che il paziente possa stabilizzarsi sulle nuove posizioni che l’analisi gli ha permesso di raggiungere.”

Sigmund Freud, nel testo fondamentale “Analisi terminabile e interminabile” del 1937 affermava che si può ritenere conclusa la terapia quando il paziente ha superato sintomi, angosce, inibizioni e lo psicoanalista ritiene che il recupero del materiale rimosso e il superamento delle resistenze non rendano più probabile la malattia.

Ma c’è un secondo significato di “fine di un’analisi”, più ambizioso: giudicare che il proseguimento dell’analisi non possa produrre ulteriori cambiamenti. “Solo in casi di eziologia prevalentemente traumatica l’analisi può dare il meglio di sé… sostituire con una soluzione corretta la decisione inadeguata che è stata presa nel lontano passato: questa sarebbe un’analisi definitivamente portata a termine, ovvero conclusa.

I sintomi nevrotici in realtà hanno una eziologia mista (“forza delle pulsioni” – “traumi antichi”) e talvolta quindi non si ottengono risultati troppo ambiziosi: comunque “la via per corrispondere alle richieste sempre maggiori che vengono rivolte alla cura analitica non porta all’accorciamento della durata di quest’ultima, né vi passa attraverso”.

In termini generali possiamo affermare, citando Alexander, che la terapia offra al paziente una “esperienza emozionale correttiva”, e questa esperienza, che secondo Migone spesso non produce insight nel paziente, deve necessariamente conoscere un termine, anche se non sempre può corrispondere al raggiungimento di una analisi completa.

In analisi è previsto un periodo finale detto termination, in cui paziente e analista si accordano sulla data in cui porre termine alle sedute. Il clinico osserva le reazioni prodotte nel e dal paziente alla consapevolezza della fine della terapia. “Nuove configurazioni emotive e movimenti transferali” emergeranno “legati al tema della separazione e alla capacità del paziente di interiorizzare i risultati raggiunti, proprio come accade in terapia breve. Quindi la psicoanalisi, che inizia open ended, cioè senza fissare un data per la fine della terapia, esponendo così il paziente ad una esperienza di accettazione “illimitata” per analizzarne le reazioni transferali, con la inevitabile fase di termination espone il paziente anche allo stimolo opposto, quello della fine del rapporto.”

La tolleranza a questo tipo di frustrazione può essere considerato un indice della sua capacità di interiorizzare l’oggetto buono e potersi separare dall’altro. Credo di poter attribuire un significato simbolico a questo mio ultimo articolo per questa rivista, e di poterla considerare, in senso lato, la fine di una relazione clinica tra me e il pubblico della stessa. Anche in questo caso anche il clinico deve elaborare i sentimenti che si accompagnano alla fine di una relazione.

Il butoh – la danza psicosomatica

il Butoh – la danza psicosomatica

 

Un uomo nudo danza, con il corpo completamente ricoperto di pittura bianca. Le membra scosse da tremori sincopati e dolenti. La mimica del suo viso si tende, digrigna i denti, soffre, mentre ogni muscolo del suo corpo  si contrare in spasmi ritmici che compongono la danza delle tenebre.

 

 

 

Il butoh nasce in Giappone, tra gli anni cinquanta e sessanta grazie agli sforzi di Tatsumi Hijikata, e Kazuo Ohno. In origine il movimento artistico del Butoh si caratterizzava per il suo aspetto provocatorio, mettendo in scena tabù sessuali, una rappresentazione grottesca, decadente, mortifera eppure umoristica, in cui il corpo è sempre al centro della scena. L’attore è organico, amplia il concetto di danza trascendendo il concetto di estetica, diventando egli stesso luogo della rappresentazione drammatica. Per molti il Butoh rappresenta un “grido primordiale che annienta e vanifica ogni norma, la trasformazione e la metamorfosi della ribellione del corpo naturale contro la violenza della cultura, che porta alla luce pure visioni dal subconscio sostenute unicamente dall’urgenza del desiderio e dell’istinto primitivo. É la lotta delle cose invisibili all’interno del corpo che, una volta portata all’esterno, acquisisce una valenza sacrale. L’universo diventa il vestito del corpo ed il corpo diventa il contenitore dell’anima.”

Questo movimento artistico che esalta la capacità del corpo di rappresentare il dramma della vita umana, in costante conflitto tra natura e cultura, esalta il legame viscerale con il mondo, andando a pescare i propri rimandi e simboli nel patrimonio dell’inconscio collettivo. Secondo molti sostenitori di Grotowsky il Butoh e il suo impegnativo training rappresenta una modalità per esplorare e integrare la dimensione psicosomatica. Nella danza del Butoh l’attore è rivolto verso l’interno di sé, e vibrando crea un nuovo spazio onirico in cui la presenza umana sembra combattere con la sua natura caduca e mortale. Cifra stilisti del Butoh è sperimentare difersi tipi di esistenza, l’utilizzo dinamico del vuoto, l’improvvisazione, la surrealtà, la nudità, e la pittura del corpo.

Il Butoh persegue il fine di unire il danzatore e il luogo in cui avviene la danza, unione che ha sede nel corpo. Per questo il Butoh non avveniva in origine in luoghi specifici, ma era improvvisato per strada, e in ogni tipo di luogo in cui potevano essere coinvolte più persone.  “La proposta del butô e del Nô ha una concordanza radicale: chi pratica queste vie si interroga sulla costrizione del presente. Di istante in istante ad occhi aperti mette in scena l’ineluttabile: una mano, un uomo, una donna, una storia, la vita. Un gesto solo. E la scintilla che di questo è cosciente.”

Ôno dice al riguardo: “come danzatori noi non possiamo non porci la questione: cosa sia la realtà?” Hijikata Tatsumi riteneva che: “Persino le vostre stesse braccia, profondamente ancorate nel vostro corpo, le sentite estranee a voi stessi, sentite che non dipendono da voi. Qui giace un importante segreto. L’essenza radicale del butô è nascosta qui.” Un braccio può bastare, per dire tutto. Il singolo atto dello stare al mondo, inteso in senso letterale, diviene un atto di ribellione di fronte al caos del mondo, dinanzi alla sovrastrutture culturali, e può, di per sé, diventare un manifesto di esistenza e ribellione. Nel Butoh contemporaneo, presso la scuola Ôno, chi desidera diventare un danzatore deve passare cinque anni ad esercitarsi solo per camminare, e anni per imparare a stare fermi.

Vorrei citare le parole di Bateson, ricordando che anche quando siamo immobili, intenti in una conversazione, non comunichiamo solo con le parole, ma con gesti, sguardi, toni e silenzi. “Una lingua è prima di tutto un sistema di gesti. Le parole furono inventate molto più tardi.” In questo senso il Butoh è una comunicazione protolinguistica, psicosomatica, capace di comunicare l’inquietudine dell’esistenza umana senza bisogno di ricorrere alla comunicazione verbale.

 

Salerno Giorgio, Suoni del corpo, segni del cuore. La danza butô tra Oriente e Occidente, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998

Watanabe Tamotsu, La danza giapponese, pp.29, Ali&no Editrice, Perugia, 2001

Ôno Kazuo, Kazuo Ôno ‘s world, from without and within, Endnotes, Tokyo, 1999, p. 303

Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro Nô, Milano, Adelphi Edizioni, 1966

 

http://www.butohkan.jp/