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Mens sana in ambiens sano – Non c’è salute mentale senza salute ambientale

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Non c’è salute mentale senza salute ambientale.

Eventi metereologici estremi, caldo torrido, acque marine a 32 gradi, aria irrespirabile, piogge torrenziali, siccità e frane, scioglimento dei ghiacci perenni e innalzamento dei mari. Questa è la condizione in cui si presenta il nostro ambiente naturale in questo periodo storico. Lo sfruttamento inarrestabile delle risorse naturali e il rifiuto dei governi di trovare delle reali alternative all’utilizzo di combustibili fossili sta portando il mondo ad un pericoloso punto di non ritorno. Questa estate ne è l’emblema. Picchi di 48 gradi in Sardegna sono il prodromo della desertificazione delle coste mediterranee, con le acque del mare che bollono letteralmente a causa di correnti roventi che devastano la flora marina e ne alternano gli equilibri.

Eppure assistiamo ancora a dichiarazioni di politici che vogliono trivellare le coste adriatiche per estrarne il gas o sono nostalgici del nucleare, spacciato per fonte di energia rinnovabile. Al di là della personale inclinazione politica di ognuno, la gestione scellerata dell’ambiente da parte delle élite di governo, in Europa come nel resto del mondo, sta portando la specie umana a sperimentare condizioni di vita estreme, che non determinano soltanto carestie e disastri ambientali, ma anche malattie fisiche e mentali.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), oltre il 25% delle malattie negli adulti ed oltre il 33% delle malattie nei bambini sotto i cinque anni sono dovute a cause ambientali e, circa 13 milioni sono le morti attribuibili annualmente ad esposizioni ambientali, di cui oltre 7 milioni legate al solo inquinamento atmosferico.

Secondo due studi presentati in anteprima durante il Seminario Internazionale RespiraMi: “Recent Advances in Air Pollution and Health” co-organizzato dalla Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico e dalla Fondazione Internazionale Menarini, l’inquinamento ha effetti dannosi non soltanto sull’apparato respiratorio, il sistema cardiovascolare o l’attività cognitiva, ma modifica il funzionamento cerebrale al punto da poterlo compromettere e far sviluppare patologie psichiatriche, soprattutto nella fascia di età tra 30 e 64 anni. “Per ogni incremento di circa 1 microgrammo per metro cubo di particolato fine (PM2.5) nell’aria” si legge nello studio, “il rischio di depressione aumenta del 13% e in concomitanza le prescrizioni di antidepressivi crescono dell’1.3%. Anche un’esposizione acuta all’inquinamento eccessivo è pericolosa: in chi soffre di depressione bipolare, nei giorni successivi a un allarme smog, la probabilità di ricoveri per episodi maniacali con componenti miste può quasi quadruplicare.” Secondo Sergio Harari, co-presidente del Seminario e Direttore Unità Operativa Pneumologia, Ospedale San Giuseppe MultiMedica di Milano e professore di Medicina Interna alla Statale, l’aria inquinata è deleteria per la funzionalità cerebrale, perché per esempio è stato dimostrato che l’esposizione allo smog peggiora le performance cerebrali e addirittura accelera il declino cognitivo correlato all’età, aumentando il rischio di Alzheimer – precisa l’esperto – ma i risultati preliminari dei nuovi studi indicano che lo smog può essere tossico sul funzionamento cerebrale al punto da provocare anche patologie psichiatriche, probabilmente attraverso un incremento dell’infiammazione generale o per un’alterazione delle difese antiossidanti.”

Quello che le classi dirigenti delle varie multinazionali e i politici del mondo non comprendono, o non desiderano comprendere, è che in futuro, oltre a dover mettere in atto i soliti tardivi e insufficienti tentativi di riparazione alle catastrofi ambientali sempre crescenti, come quelle avvenute inEmilia Romagna quest’anno, dovranno considerare percentuali sempre più ampie di popolazione affette da patologie mentali (compresi gli effetti della traumatizzazione primaria e secondaria da esposizione a tali eventi), e quindi non in grado di collaborare in modo produttivo alla società, nonché a un aumento dei fenomeni migratori dovuti ai disastri ambientali e alla desertificazione.

Non c’è salute mentale senza salute ambientale! Le politiche in atto per il benessere dei giovani, e non solo, devono partire da queste considerazioni. La necessità, ad esempio, di ristabilire polmoni verdi nelle città e ridurre drasticamente le emissioni di CO2, sono prioritarie per poter mantenere la salute mentale della popolazione.

Al contrario dei governi europei e mondiali, i professionisti della salute mentale hanno prestato ascolto alla nuova emergenza legata alle condizioni ambientali e alla salute mentale, tanto da coniare una nuova categoria psichiatrica per l’angoscia derivante dalla consapevolezza dei cambiamenti climatici, la solastalgia.

Il termine solastalgia, dal latino solacium (conforto) e dalla radice greca –algia (dolore), è un neologismo del filosofo australiano Glenn Albrecht, con il quale si definisce il sentimento di nostalgia che si prova per un luogo nonostante vi si continui a risiedere. Questo particolare stato emotivo si manifesta quando il proprio ambiente viene alterato da mutamenti repentini che esulano dal proprio controllo. “È un tipo di nostalgia di casa o malinconia che provi quando sei a casa e il tuo ambiente familiare sta cambiando intorno a te in modi che ritieni profondamente negativi”, ha spiegato Albrecht, che ha ideato il termine per descrivere gli effetti dannosi che il boom dell’estrazione del carbone ha avuto sugli abitanti di alcune zone dell’Australia.

In conclusione, ogni politica nazionale ed europea riguardante la salute mentale, non può prescindere dal prendere in considerazione i devastanti rischi per la salute mentale e cognitiva umana, di bambini e adulti, derivanti dalla distruzione delle risorse naturali. Il deterioramento della salute mentale umana può solo amplificare la povertà e il malessere sociale di fette sempre più ampie di popolazione nel mondo. “La Terra non è un’eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli”.

 

Dott.ssa Valeria Colasanti

psicologa e psicoterapeuta a Roma

 

Per approfondire:

Albrecht, G. et al. (2007) Solastalgia: L’angoscia causata dai cambiamenti ambientali. Psichiatria australasiana, 15(sup1), pp.S95-S98. 10.1080/10398560701701288

Albrecht, G., (2011) Cambiamento ambientale cronico: Sindromi “psicoterratiche” emergenti. Cambiamenti climatici e benessere umano (pp. 43-56). Springer, New York, NY.

Berry, H. L. et al. (2010) Cambiamenti climatici e salute mentale: un quadro di percorsi causali. Rivista internazionale di sanità pubblica, 55(2), 123-132. https://doi.org/10.1007/s00038-009-0112-0

Bosello, F., et al. (2012) L’impatto economico dei cambiamenti climatici in Europa: innalzamento del livello del mare. Cambiamento climatico, 112(1), 63-81. https://doi.org/10.1007/s10584-011-0340-1

Bundo, M., et al. (2021) Temperatura ambientale e ricoveri per la salute mentale a Berna, Svizzera: Uno studio della serie temporale di 45 anni. PLOS uno, 16(10), pag.e0258302. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0258302

Burke S., et al (2018) Gli effetti psicologici dei cambiamenti climatici sui bambini. Attuali rapporti di psichiatria. 2018. 20(5):35. https://doi.org/10.1007/s11920-018-0896-9

Caamano-Isorna, F., et al. (2011). Effetti respiratori e mentali degli incendi boschivi: uno studio ecologico nei comuni galiziani (Spagna nord-occidentale). Salute ambientale, 10(1), 1-9. https://doi.org/10.1186/1476-069X-10-48

Cianconi, P. et al (2020). L’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale: una revisione descrittiva sistematica. Frontiere della psichiatria, 11, 74. https://doi.org/10.3389/fpsyt.2020.00074

Clayton, S. et al. (2017) La salute mentale e il nostro clima mutevole: Impatti, implicazioni e linee guida. Washington, D.C.: American Psychological Association, Climate for Health ed ecoAmerica.

Cunsolo Willox, A., Stephenson, E., Allen, J. et al. 2015. Esaminare le relazioni tra il cambiamento climatico e la salute mentale nel Nord Circumpolare. Modifica del Reg Environ 15, 169-182.

Daghagh Yazd, S., et al. (2019). Fattori di rischio chiave che influenzano la salute mentale degli agricoltori: Una revisione sistematica. Rivista internazionale di ricerca ambientale e sanità pubblica, 16(23), 4849. https://doi.org/10.3390/ijerph16234849

Fernandez, A., et al. (2015) Inondazione e salute mentale: una revisione sistematica della mappatura. PLOS 1, 10(4), e0119929. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0119929

Hayes, K. e Polonia, B. (2018). Affrontare la salute mentale in un clima che cambia: Integrare gli indicatori di salute mentale nei cambiamenti climatici e nelle valutazioni della vulnerabilità sanitaria e dell’adattamento. Rivista internazionale di ricerca ambientale e sanità pubblica, 15(9), 1806. https://doi.org/10.3390/ijerph15091806

Hickman, C. et al. (2021) L’ansia climatica nei bambini e nei giovani e le loro convinzioni sulle risposte del governo ai cambiamenti climatici: un sondaggio globale. La salute planetaria di Lancet 5(12) E863-E873. https://doi.org/10.1016/S2542-5196(21)00278-3

IPCC (2021) AR6 Cambiamento climatico 2021: La base della scienza fisica

IPCC (2022) Cambiamento climatico 2022: Impatti, adattamento e vulnerabilità

L’ultimo incontro. La fine della terapia.

L’ultimo incontro. La fine della terapia.
Come ogni relazione, anche quella terapeutica giunge a un termine.
Ma qual è questo termine, chi lo stabilisce e quando, rappresenta una controversia teorica e metodologica iniziata accademicamente dal 1937.

Freud non aveva dubbi circa il significato della fine di un’analisi. Essa si considera tale quando «paziente e analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute analitiche». In altri termini quando paziente e analista ritengono di aver raggiunto, ciascuno dal suo punto di vista, la meta prefissata: il primo il benessere psicologico personale e il secondo la convinzione di aver portato il paziente ad una condizione che lo garantisca dal «rinnovarsi dei processi patologici in questione».

Egli affrontò la questione in un saggio fondamentale scritto nel 1937, «Die endiiche und die unendiiche Analyse», ovvero «Analisi terminabile e interminabile». Per Freud l’analisi «definitivamente portate a termine» comporta l’assunto che la guarigione analitica possa essere definitiva, ovvero che il conflitto pulsionale (tra Es ed lo) sia risolto per sempre e non possa ulteriormente verificarsi.

Nella mia pratica clinica ho affrontato molte volte la chiusura di un percorso terapeutico. A volte l’esigenza di terminare il lavoro clinico nasce dal paziente, e come terapeuta mi sono trovata a non approvarne la scelta.
In questi casi clinico e paziente non condividono più il focus attentivo del loro lavoro e il possibile obiettivo terapeutico, sebbene gli psicoanalisti classici rifiutino fermamente la possibilità di impostare il lavoro su obiettivi definiti. Nella loro opera di “levare”, mettere un obiettivo è una contraddizione in termini.

Il paziente spesso, ad un certo punto del percorso clinico, sente di poter “fare da solo”, di “camminare con le proprie gambe” e di non avvertire più l’esigenza di uno spazio di creazione di una trama condivisa.

Una psicoterapia non è soltanto un ascolto, non è un contesto in cui ricevere dei consigli e in nessun caso diviene una sostituzione della capacità di agire e decidere della persona. È quello che spesso propongono i sedicenti coach e dai quali guardarsi bene in termini di autonomia individuale.
In questi casi ho sempre espresso il mio punto di vista professionale, sottolineando che queste spinte coincidono spesso con una scomparsa del “sintomo” che ha condotto in terapia, con un cambiamento delle condizioni di vita o con una resistenza rispetto ad alcuni temi che la persona non desidera affrontare in seduta.

Ricordo l’incontro con Elisa, una donna di più di cinquant’anni, arrivata da me perché soffriva di amaxofobia (dal greco: hàmaxa, “carro”, e phobos, “paura” – la fobia di guidare un automezzo). Sin dall’inizio del nostro percorso insieme feci presente ad Elisa che il sintomo per noi era un veicolo di significati e che lo avremmo utilizzato per accedere all’incoscio e comprendere quale funzione potesse avere quella particolare fobia nella sua organizzazione psichica.

Non avremmo lavorato per togliere il sintomo, lo avremmo utilizzato come nostro alleato clinico.
Elisa cominciò a ripercorrere le sue vicende familiari, incentrate in particolare sulla recente perdita della madre. Nella sua grande generosità la signora portava moltissimi sogni in terapia, che ci permisero di elaborare a fondo il suo rapporto irrisolto con la figura materna e affrancare Elisa da sofferenze e angosce ad essa legate.

Ma quando sulla scena onirica e clinica del setting si affacciò per la prima volta la figura del padre, che Elisa ricordava appena essendo morto in un incidente durante la sua infanzia la paziente si congelò. Iniziò a non sognare più e in breve decise che il suo percorso era terminato. Forse Elisa non era pronta per affrontare alcuni fantasmi ed esplorare alcuni contenuti, arrivò persino a riprendere lezioni di guida, pur di dimostrare di non aver più bisogno della terapia.

Io le restituii la mia lettura di quello che stava avvenendo in quel momento, di certo una fase del processo clinico e nient affatto il suo termine, ma Elisa aveva preso una decisione e io la rispettai.
In alti casi, sebbene rari, mi sono trovata io stessa a consigliare a un paziente di interrompere il nostro percorso e iniziarne un altro, con un altro terapeuta.

In questi casi io stessa sentivo che la terapia si era incagliata attorno a quello che i Baranger avrebbero potuto definire un “bastione”, un fenomeno di resistenza che si presenta nel campo analitico, e che appartiene e compartecipa nei processi inconsci di analista e paziente.

Ricordo il caso di Francesco, venuto da me perché afflitto dalla sensazione di essere sempre inadeguato e incapace di rispondere alle aspettative altrui. La terapia con Francesco fu caratterizzata da intensi sentimenti controtransferali in cui io stessa mi percepivo incapace di aiutarlo a superare le sue resistenze e mi sentivo inadeguata al compito.

Nonostante utilizzassi queste comunicazioni nel setting e cercassi di partire da quelle emozioni condivisibili con Francesco non c’era modo di accedere ad alcun ricordo e di trovare alcun senso a quelle sensazioni ancestrali.

In altri casi, la maggior parte, la terapia è giunta a un termine condiviso e pensato da entrambi i partecipanti al campo analitico. In queste situazioni ho sperimentato, insieme al paziente, la sensazione di aver esplorato fino in fondo la nostra relazione terapeutica, specchio di altre relazioni ben più antiche e di aver svelato ogni significato possibili in quel particolare incontro tra “me” terapeuta e “l’altro” paziente.

Non uno spazio saturo, incapace di offrire nuovi significati, ma uno spazio pieno, gravido,che ha consentito di dare alla luce nuove significati.





Dott.ssa Valeria Colasanti
Psicologa,Psicoterapeuta e Psico-oncologa

Riceve su appuntamento a Roma
tel. (+39) 348 8197748
mail. colasantivaleria@gmail.com

Per Approfondire

– S. Freud “Analisi terminabile e interminabile”, 1977, Bollati Boringhieri, Torino.
– W. e M. Baranger “La situazione psicoanalitica come campo bipersonale”, 2011, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Genitorialità – Nascere come genitori

Lavorando come psicologa in un consultorio familiare, una buona parte del mio lavoro consiste nel sostenere le coppie di neogenitori nella transizione dalla diade alla triade, ovvero uscire dalla dimensione di coppia, in cui ognuno dei partner richiede e fornisce accudimento all’altro. L’arrivo di un figlio determina una rivoluzione nella strutturazione di questo rapporto e del nostro funzionamento interno.

Freud scrisse che l’innamoramento costituisce l’unico momento nel quale mettiamo da parte il nostro Io per porre al centro l’altro. Credo che l’amore a cui si riferisse il padre della psicoanalisi fosse proprio quello genitoriale. I nove mesi che precedono l’arrivo di un figlio forniscono alla coppia la possibilità di rivisitare le proprie esperienze di accudimento, i propri legali affettivi e le proprie vicende di attaccamento. La genitorialita infatti va considerata una dimensione psicodinamica interna, che si forma dall’infanzia, attraverso le interazioni con i nostri caregiver, fatte di comunicazioni verbali e non verbali, bisogni, desideri, proiezioni e fantasie che interiorizziamo nel corso del nostro sviluppo, e che lo psicologo Eric Berne definiva “genitore interno”, costituito sulla storia delle “interazioni reali e fantasmatiche” con i nostri genitori. Le ricerche sull’attaccamento adulto confermano queste ipotesi, dato che l’esito delle vicende affettive infantili, e la qualità dei nostri rapporti con i caregiver, determinano anche l’esisto del nostro attaccamento adulto, e quindi la nostra capacità di funzionare a nostra volta come caregiver.

Come nasce un genitore

Il primo passo verso la genitorialita lo compiamo quando costituiamo il legame di coppia. È proprio quando il nostro legame di attaccamento trova come oggetto il partner e non più i nostri genitori che passiamo dall’essere oggetto di cura, a caregiver dell’altro, il quale risponde in modo reciproco. Ciò mi permette di poter diventare a mia volta generatore di una nuova vita della quale prendermi cura unidirezionalmente. Secondo Visentini la genitorialita è il momento più maturo della dinamica affettiva, in cui convergono le esperienze, rappresentazioni, ricordi, modelli comportamentali e relazionali della propria storia affettiva.

Il ruolo dei modelli operativi interni

Infatti in base a questi elementi dentro di noi vengono a formarsi i Modelli Operativi Interni che rappresentano l’interiorizzazione, in modelli mentali, delle nostre esperienze nella relazione con chi si è preso cura di noi, orientando il nostro modo di essere un giorno genitori. Di questo era ben conscia Selma Friberg, che nel volume fondamentale “Ghosts in the nursery” descrive come ogni genitore corra il rischio di ripetere la tragedia della propria storia di accudimento con il suo bambino.

Fantasmi nella stanza dei bambini

Questi fantasmi rappresentano le esperienze interiorizzate e non elaborate delle proprie vicende relazionali con i caregiver, che ogni genitore rischia di poter rimettere in atto inconsapevolmente nella transizione da oggetto di cura a colui che si rende cura dell’altro. Le teorie della Friberg trovano riscontri nelle ricerche più recenti sul ruolo del trauma e sulla memoria dissociata delle esperienze di attaccamento traumatico, le quali, essendo costanti e generalizzate, tendono a formare dei modelli di relazione inconsapevoli. Per essere dei genitori non maltrattanti si deve essere consapevoli di aver subito o meno dei maltrattamenti.

Il passato ritorna

Madri vittime di abusi sessuali intrafamiliari durante l’infanzia possono esporre i propri figli allo stesso rischio, spesso con gli stessi perpetratori, a causa della dissociazione traumatica dalla coscienza di quelle esperienze. Il trauma resta isolato dalla rappresentazione interna del genitore, non consentendogli di riconoscere il pericolo o peggio, finendo egli stesso per agire quelle stesse modalità di maltrattamento. Ne sono testimone ogni giorno nel mio lavoro con le neo-mamme. Il modo in cui tengono il loro bambino in braccio, lo attaccano al seno, lo cullano, testimonia la storia del loro stesso accudimento.

Madri non responsive, non sintonizzate sui propri bambini, incapaci di “funzionare” perché bloccate nel tentativo di elaborare un proprio trauma o di contenere le proprie emozioni, a loro volta figlie di madri che non sono state in grado di svolgere una buona funzione genitoriale. Di fornire quella reverie materna postulata da Bion, e fondamentale per poter permettere alla mente del bambino di pensare il mondo e poterlo significare.

Il genitore interno

La genitorialita quindi rappresenta uno spazio psicodinamico interno che viene attivato dalla nascita del figlio reale, fin dal momento della consapevolezza della gravidanza, rimettendo in discussione memorie, desideri, paure, fantasie legati alla nostra storia di figli prima e di futuri genitori poi. Una madre, durante un corso di accompagnamento alla nascita in cui sono intervenuta come psicologa ha fornito u ottimo esempio di come queste modalità di funzionamento si attivino in modo inconsapevole. L’incontro prevedeva che le coppie presenti rappresentassero attraverso delle sculture dinamiche, il loro modo di “vedere” la triade, una volta tornati a casa con il neonato. La richiesta era quella di mettere in scena una immagine rappresentativa dell’organizzazione della nuova triade, utilizzando se stessi come attori.

Questa madre aveva espresso verbalmente il desiderio di coinvolgere il partner in tutti i compiti di accudimento del figlio. Non voleva essere una di quelle madri che non lasciano spazio al padre, simbiotiche, e iperprotettive. Avrebbero fatto tutto insieme e lei lo avrebbe coinvolto nell’accudimento del figlio fin dall’inizio. Le chiesi allora di metterlo in scena, posizionandosi nello spazio, assegnando una posizione nella stanza per lei, il bambino, e il partner.

La donna si posizionò al centro del cerchio costituito dai partecipanti. Il bambino era tra le sue braccia rivolto verso di lei. Il partner fu posizionato ad almeno mezzo metro di distanza, dall’altro lato, solo, rivolto con lo sguardo verso la donna è il bambino. Tra di loro non vi era alcun contatto fisico. Soltanto dopo aver ricevuto i feedback delle altre coppie la donna si rese conto che aveva rappresentato una scena opposta a quella che in realtà desiderava.

Probabilmente questa disposizione prossemica derivava proprio dalla storia di accudimento di quella madre e dai modelli interni che ne erano derivati.
Per diventare genitori bisogna esplorare profondamente la nostra storia relazionale, per poterci liberar dai “fantasmi” del nostro passato ed essere davvero i genitori che vorremmo diventare.

Per Approfondire

Stern D. “La costellazione materna” Bollati Boringhieri, Torino, 1995

Fraiberg S. “Ghost in the nursery” Cortina, Milano 1999

Bowlby J. “Costruzione e rottura dei legami affettivi” Cortina, Milano, 1982

Che cos’è il trauma – elaborarlo a partire dal corpo

Che cos’è il trauma? Per Freud con l’espressione “traumatico” noi designamo un’esperienza che in breve tempo fornisce troppi stimoli alla vita psichica, e per tale condizione la sua elaborazione non riesce, portando a “disturbi permanenti nell’economia della psiche”. Secondo la teoria freudiana il trauma rivestiva un ruolo causale in molte patologie psichiche.

Ma il trauma oltre a colpire la psiche colpisce il soma, il corpo.

È il corpo che mette in scena e rappresenta il trauma, e che spesso, se ne fa portatore. Uno dei segni distintivi della traumatizzazione è la disregolazione degli stati emozionali e di arousal (attivazione corporea).
Il termine arousal (stato di attivazione) si riferisce alla possibilità e modalità dell’organismo di reagire a vari stimoli, variando parametri quali la frequenza cardiaca la respirazione, la sudorazione. Queste reazioni sono legate a uno dei principali substrati anatomici della vigilanza, ovvero la capacità di restare svegli, la formazione reticolare ascendete.

Autoritratto Egon Schiele

Essa è una proiezione verso la corteccia dei centri regolatori dell’arousal che si trovano nel tronco encefalico. Secondo MacLean questa parte del cervello è definita protorettiliana, e ad essa appartengono le reazioni viscerali per la conservazione della vita.
È un cervello che reagisce rapidamente agli stimoli minacciosi, attraverso la via del sistema neurovegetativo. Se uno stimolo raggiunge una intensità adeguata viene processato dal cervello rettiliano che modula l’arousal e dal cervello paloemammaliano (sistema limbico) che attiva la paura, e da quello neomammaliano (corteccia) che valuta in modo consapevole il pericolo percepito.

Le strutture cerebrali superiori agiscono in senso regolatorio su quelle inferiori, in particolare per la capacità di inibirne le reazioni.

“Un trauma è in grado di alterare la connessione tra le strutture cerebrali e la capacità auto-regolatorie del sistema nervoso centrale e autonomo.”
Il segno più chiaro della traumatizzazione è la disregolazione degli stati di arousal. Ciò che è traumatico quindi causa in breve tempo un sovraccarico per i sistemi neurobiologici di regolazione, esattamente come intuito da Freud a livello psicodinamico, così accade a livello somatico.

Un evento meno traumatico ha un potenziale traumatizzante su un sistema nervoso in crescita, per questo nella prima infanzia sono pericolosi anche quegli eventi non molto intensi che si ripetono nel tempo, come un maltrattamento o un disturbo dell’attaccamento. Perché non permettono lo stabilirsi di connessioni tra le varie parti del cervello che ci permettono di regolare l’arousal e quindi la reazione agli eventi.

Un arousal disregolato causa la dissociazione tra aree del cervello solitamente collegate, che funzionando in concerto sono in grado di elaborare efficacemente lo stimolo. Questa condizione può essere transitoria o meno a seconda della gravità e precocità della traumatizzazione. Quando invece questa attività non è possibile lo stimolo non viene elaborato, divenendo “memoria traumatica inscritta nel corpo, non processata”.

Secondo quanto evidenziato dalla risonanza magnetica funzionale, nelle dissociazioni traumatiche che portano a stati di iper e ipoattivazione traumatica la connettività tra la corteccia prefrontale e le strutture sottocorticali è risultata alterata. Ciò impedisce la normale funzione di inibizione dell’iperattivazione, impedendo la possibilità di discriminare lo stimolo e di mentalizzare l’evento.

L’area di Broca, necessaria al linguaggio, è disattivata, il che rende impossibile accedere al trauma tramite la parola, perché non è disponibile a livello funzionale. Per questo le talking therapies non sono in grado di far integrare al paziente la memoria traumatica, perché la parola, funzionalmente, non era disponibile al momento del trauma, e ogni volta che il paziente rievocherà in qualche modo elementi di quell’evento traumatico, nel suo cervello si riproporrà lo stesso pattern di funzionamento cerebrale.

Per integrare l’esperienza traumatica bisogna passare dal corpo. La psicoterapia sensomotoria abbraccia questo approccio. La psicoterapia sensomotoria è un approccio clinico centrato sul corpo sviluppato da Pat Ogden negli anni ’80, basato su due principi fondamentali: “regolare gli stati emozionali e sensomotori attraverso la relazione terapeutica e insegnare al paziente ad autoregolarsi attraverso il contatto, il tracking, e l’articolazione dei processi sensomotori attraverso la mindfulness.”

Il paziente è guidato dal terapeuta, che gl offre una occasione di regolazione tramite il social engagement, concentrandosi sulle sensazioni del corpo osservandole e sviluppandole. È un approccio bottom – up, il quale si concentra sugli aspetti legati al funzionamento del cervello proto-rettiliano. Si parte dalle sensazioni somatiche per arrivare alle emozioni e all’attività cognitiva per arrivare all’elaborazione dell’esperienza traumatica.

http://www.psicosoma.eu/calendario-formazione.htmPsicosoma.eu

Dott.ssa Valeria Colasanti
riceve a Roma
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3488197748

Per Approfondire

G. Tagliavini “Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma” Cognitivismo clinico (2011) 8, 1, 60 – 72
B. Van der Kolk “Il corpo accusa il colpo” Raffaello Cortina ed. Milano – 2015

L’origine dell’arte – dalle pitture rupestri di Lascaux a oggi

Pittura di Lascaux

“Gli uomini di Cro-Magnon che quindicimila anni fa dipingevano le grotte di Altamira e di Lascaux siamo noi, e uno sguardo all’incredibile ricchezza e bellezza di quest’opera ci convince, nel modo più istintivo e viscerale, che Picasso non aveva un vantaggio, quanto a raffinatezza mentale, su quegli antenati con cervelli identici ai nostri.”

Le parole di Stephen Gould, paleontologo e biologo, restituiscono il senso di infinita meraviglia che un esemplare di uomo moderno può sperimentare di fronte alle pitture rupestri delle grotte di Lascaux, nella zona Franco Cantabrica. Nella zona della Francia Sud – Occidentale e della Spagna Settentrionale si possono ammirare le caverne di Niaux (scoperta nel 1864), Lascaux, Chauvet e Altamira. In Italia è conosciuto al momento solamente il sito di Grotta Paglicci, in Puglia, mentre altre grotte sono state ritrovate recentemente in Australia e in Africa.
Le pitture di Chauvet sono risultate le più antiche, databili ben 32.900 anni fa, nel Paleolitico Superiore.

I soggetti rappresentati dall’arte pittorica dell’epoca rientrano in tre gruppi: gli animali, le impronte delle mani, le figure antropomorfe. La maggior parte delle rappresentazioni finora scoperte ritraggono gli animali; in particolare grandi erbivori rappresentanti nell’atto di fuggire durante affollate scene di caccia. Pesci, uccelli ed elementi vegetali sono praticamente assenti. Gli autori di queste immagini erano gli uomini di Cro-Magnon, una variante della specie Sapiens Sapiens. Prevalentemente raccoglitori e cacciatori era totalmente dipendenti dal mondo naturale. Nei siti della zona Franco Cantabrica è stata rilevata una tecnica specifica composta da due fasi: la prima prevedeva l’incisione o il disegno a carboncino dei contorni della figura, che in una seconda fase veniva colorata con dell’ocra rossa. Spesso le incisioni venivano eseguite nella parte più interna e inaccessibile della caverna.

Queste scene colpiscono per la vitalità e il dinamismo delle rappresentazioni, sebbene bidimensionali, incredibilmente espressive, vive e drammatiche. Spesso gli elementi architettonici naturali venivano sfruttati per trasferire maggiore verosimiglianza alle immagini, spesso accompagnate da pittogrammi e simboli al momento ancora indecifrabili. Nel tempo diversi studiosi si sono approcciati a queste opere nel tentativo di interpretarle e comprenderle. Inizialmente l’uomo del Paleolitico veniva visto come un raccoglitore immerso in un ambiente ricco di risorse, in cui sopravvivere era facile, grazie all’abbondanza di selvaggina e risorse naturali. Nel tempo libero, quindi, questa variante del Sapiens Sapiens avrebbe avuto tempo di dedicarsi alla pittura rupestre secondo questi teorici. “Questa concezione si inseriva perfettamente in una visione dell’uomo preistorico ancora privo di qualunque forma di religione. La scoperta dell’arte parietale alla fine del XIX secolo determinò la crisi di queste idee, dimostrando che l’arte paleolitica era un fenomeno ben più complesso.”

Pitture rupestri di Lascaux


Anche i luoghi in cui queste pitture erano eseguite suggeriva un intento ben diverso dalla mera rappresentazione figurativa a fini estetici. È con l’abate Henri Breuil agli inizi del secolo scorso che prende piede la concezione magico – rituale dell’arte paleolitica. L’arte rupestre era interpretata come un rito propiziatorio della caccia. Incidere sulla pietra l’immagine della preda avrebbe concesso agli uomini di assicurarsi la vittoria sulla preda, e la rappresentazione stessa sarebbe avvenuta all’interno di rituali magici ospitati nel ventre nascosto delle caverne.

“Questi riti magici includevano la raffigurazione degli animali sulle pareti delle grotte. Ma questa magia non aveva nulla in comune con quello che noi intendiamo per religione, nel senso di credenza in potenze ultraterrene. Le immagini facevano parte dell’apparato di questa magia, perché esse erano insieme rappresentazione e cosa rappresentata.
Nell’immagine da lui dipinta, il cacciatore paleolitico aveva la convinzione di possedere la cosa stessa; credeva, riproducendolo, di acquistare un potere sull’oggetto. La rappresentazione era l’anticipazione dell’evento. Non si trattava, dunque, di sostituzioni simboliche, ma di vere azioni dirette ad uno scopo, atti reali che ottenevano effetti reali. Una sorta di incantesimo.” Non vi sarebbe stata separazione, quindi, tra arte e realtà. Le mani rappresentate attorno a queste figure rappresenterebbero in senso concerto la presa di possesso dell’oggetto rappresentato; accumulandosi nel tempo nei siti in cui questi nostri antenati vivevano e prosperavano.

Dopo soltanto quattro anni dalla morte di Breuil l’opera “Préhistoire de l’art occidental” di André Leroi-Gourhan cambia completamente il paradigma interpretativo dell’arte del Paleolitico.
Tra il1945 e 1965 Leroi – Gourhan fotografò e riprodusse in scala le planimetrie di ogni caverna conosciuta producendo un repertorio classificato per voci distinte, individuando quattro stili che hanno delineato lo sviluppo cronologico e stilistico dell’arte dell’epoca.

Lo stile I o prima fase primitiva si sviluppa all’incirca tra 32000 e 25000 BP (BP sta per before present). In questo periodo, secondo Leroi-Gourhan, non esiste ancora arte parietale. Le rare manifestazioni artistiche comprendono rare figure animali, spesso solo accennate, e numerose figure schematiche di organi sessuali, prevalentemente femminili.

Lo stile II o seconda fase primitiva si data tra il 25000 e il 19000 BP e con esso ha inizio l’arte parietale nelle caverne, ma solo nelle parti più vicine all’entrata, raggiungibili dalla luce del giorno. Le figure animali sono tracciate secondo uno stile sintetico, con la linea cervico-dorsale ad andamento sinuoso. In genere la parte anteriore del corpo è maggiormente sviluppata (dorso, testa e corna), mentre i dettagli anatomici sono piuttosto schematici.

Lo stile III o Arcaico si sviluppa lungo l’arco di 4000 anni, tra 19.000 e 15.000 BP. Le pitture e le incisioni vengono ora eseguite nelle parti più profonde e recondite delle caverne, a volte di accesso estremamente difficoltoso.” Sebbene mantenga aspetti dello stile precedente come la linea cervici-dorsale sinuosa e le dimensioni voluminose la figura animale è più completa, appaiono dettagli delle pelli e le caratteristiche specie specifiche, rappresentate in modo bicromatico. La grotta di Lascaux è attribuita a questo stile.

“Lo stile IV o Classico segna l’apogeo dell’arte paleolitica sia parietale che mobiliare all’incirca tra 15000 e 11000 BP. A questo periodo appartiene la maggior parte di tutte le opere d’arte parietale e mobiliare del Paleolitico superiore. Fu, quindi, un periodo di grande creatività e fioritura artistica.” L’animale rappresentato è più realistico in termini di proporzioni, movimento e prospettiva. “Le pitture possono essere a linea di contorno nera con spazio interno vuoto oppure a campitura policroma con uso di colori diversi e di diversa intensità di tono per le varie parti del corpo. Questo consente all’artista paleolitico di realizzare effetti chiaroscurali.”

La fase più recente è contraddistinta da uno stile ancor più realistico, come Las Monedas e Altamira nella regione cantabrica.

La grande innovazione insita nella teoria di Leroi-Gourhan sull’interpretazione dell’arte paleolitica è l’affermazione del carattere non utilitaristico e magico sostenuto da Breuil, ma mitico religioso. I pittori non hanno rappresentato animali a caso, ma determinati animali, i quali non svolgevano necessariamente un ruolo. L’arte delle caverne è un gioco costante di associazioni simboliche, fondate su un sistema dualista il cui tema fondamentale è la coppia primordiale Bisonte-Cavallo, animali che rappresentano due principi opposti e nello stesso tempo complementari, dove il cavallo è il simbolo del principio maschile, il bisonte di quello femminile. “L’analisi di Leroi-Gourhan ha dimostrato che nell’arte parietale la disposizione delle figure animali e dei segni non è casuale, ma risponde a uno schema generale, una struttura che costituisce una forma di linguaggio simbolico, accuratamente codificato. L’arte parietale esprime, quindi, una visione del mondo, una cosmologia, quella dei popoli cacciatori del Paleolitico superiore, accentrata sulla divisione della natura in elementi femminili ed elementi maschili.”

Come ha osservato il filosofo Cassirer, “attraverso il simbolo l’uomo riconosce ed esprime in forma sacrale o rituale le potenti forze che sente intorno a sé, in questo modo le domina e le conduce al controllo sociale”.
Secondo Leroi-Gourhan, in conclusione, l’arte paleolitica è un mitogramma, “un insieme strutturato di figure simboliche che non esprimono una determinata azione, non hanno carattere descrittivo, non hanno bisogno di una struttura narrativa, ma sono immediatamente comprese da coloro che fanno parte della società che le ha prodotte (a noi moderni restano invece oscure, in quanto non possediamo più i codici di interpretazione).” Secondo questa interpretazione le caverne sarebbero “templi” in cui visivamente e immediatamente erano rappresentate le prime forme di mitologie cosmogoniche.

L’espressione artistica compare con la maturazione definitiva delle strutture e dei processi cerebrali che permettono il linguaggio, l’immaginazione e il pensiero simbolico astratto.

Dott. ssa Valeria Colasanti

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L’origine dell’arte
dalle pitture rupestri di Lascaux a oggi

Per Approfondire

Raffaele C. de Marinis, L’arte Paleolitica, Dispensa del corso di Preistoria, A.A. 2006/2007.

Gloria Fossi (a cura di), Arte viva. Dalla preistoria al gotico, Artedossier, Giunti.

André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi 1977.

André Leroi-Gourhan, Interprétation esthétique et religieuse des figures et symboles dans la préhistoire, In Archives des sciences sociales des religions, N. 42, 1976.

Vedere la musica – Kandinskij e la sinestesia

“Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale, quando l’inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita.”

Vasilij Vasil’evič Kandinskij descrisse con queste parole il fenomeno che gli ha permesso di tradurre la musica in colori. Per alcuni studiosi dell’arte la sinestesia di Kandinskij era soltanto una particolare sensibilità di spirito, una peculiare capacità che gli consentiva, il giorno dopo aver assistito al concerto di Arnold Schönberg a Monaco, di dipingerlo. Riconosciuto come il padre dell’arte astratta, autore del fondamentale volume “Lo spirituale nell’arte” pubblicato nel 1912, in cui presagiva, alla stregua di un profeta laico, che l’arte veicola contenuti spirituali, e che ciò avrebbe portato a prescindere dalla raffigurazione.
«L’arte non è questione di elementi formali, ma di un desiderio (=contenuto) interiore che determina prepotentemente la forma».

L’artista e teorico russo si interessa trasversalmente alle arti, essendo attivo e interessandosi di musica e letteratura, proprio perché per Kandinskij il concetto di arte può essere esteso alle manifestazioni capaci di destare emozioni e sentimenti durevoli e, in quanto tali, autentici. A tal proposito il concetto di interdisciplinarietà artistica a cui fa riferimento viene osservato per la prima volta con grande convinzione nel 1912 nell’almanacco de Il cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter), a cui Kandinskij lavora col pittore Franz Marc.
“Quando si vivono momenti di decadenza spirituale l’evoluzione dell’uomo stenta. La principale preoccupazione di molti diventa placare la sete di beni materiali che fa ristagnare nel torpore la sensibilità collettiva. L’artista, attraverso il proprio talento, riesce a mettere in contatto lo spettatore con il contenuto della propria opera, spalanca le porte delle sue emozioni, parla alla sua anima.”

Spiritualità e assoluto vengono definiti da Kandinskij come elementi irrinunciabili di qualsiasi opera artistica. Tra le opere più celebri dell’artista russo vengono ricordate la serie delle “Improvvisazioni” e i disegni delle “Composizioni”. Fin dal titolo è evidente lo stretto collegamento tra arte visiva e musica che Kandinskij riesce a rendere evidente nelle sue opere. È proprio riguardo a questa serie di dipinti e disegni che alcuni teorici parlano di sinestesia in riferimento a Kandinskij. In dipinti quali “Liricamente” del 1911 o nel più tardivo e maturo “Composizioni IIIV” del 1923 la sua pittura diviene, al pari della musica, una composizione, data dalla combinazione di due elementi: la forma e il colore. La forma non è solo ciò che delimita la superficie di un oggetto (forma esteriore), ma ha anche una qualità astratta (forma interiore). “La forma esteriore di un dipinto risponde a quello che Kandinskij definisce principio della necessità interiore, a indicare che la pittura muove dall’anima, oltrepassa la figurazione e approda all’astrazione. Anche il colore ha un’innegabile qualità esteriore, ma è ricco di infinite risonanze interiori che accendono e sollecitano in mille modi l’immaginazione di chi osserva.”

Kandinsy stesso affermò di non essere un simbolista, ma si avvicinò molto all’esserlo, considerando che attribuì un significato ad ogni colore, in rappresentanza di emozioni, elementi spirituali e sensoriali. Il giallo per l’artista rappresenta l’energia vitale, la forza centrifuga, paragonabile al suono di una tromba. L’azzurro è al contrario, freddo, dotato di forza centripeta, simile al suono di un flauto.
Per Kandinskij,”La musica è il veicolo privilegiato per congiungersi alla dimensione fisica e psichica dell’astrattismo puro e alla forma spogliata da interpretare in senso mistico e cosmico.”

Composizione VIII
Liricamente

Se questa capacità fosse dovuta alla sua elaborazione teoretica espressa nel “manifesto” del Der Blaue Reiter, o fosse dovuto a delle esperienze percettive riconducibili al fenomeno della sinestesia, non muta il ruolo fondamentale avuto da Kandinskij nell’arte del ‘900. Ma cosa si intende esattamente per sinestesia? Il termine deriva dal greco Syn, ‘insieme‘, e Aisthànestai, ‘percepire‘, ovvero ‘percepire insieme, sentire insieme’.

Per sinestesia si intende un’esperienza di percezione simultanea di stimoli appartenenti a domini sensoriali diversi, come vedere un colore o assaporare un suono. In questo fenomeno una stimolazione sensoriale è in grado di provocare la percezione di due eventi sensoriali diversi e simultanei, uno dei quali si aggiunge al primo e non è connesso alle caratteristiche dello stimolo originario. Secondo le stime 1 persona su 23 presenta questa condizione.

Secondo alcuni ricercatori il fenomeno sarebbe da ricondurre a fattori genetici ereditari, mentre per altri si tratterebbe di una condizione attivata da particolari condizioni ambientali. I ricercatori del Dipartimento di Genomica dell’Imperial College di Londra, hanno pubblicato uno studio sull’American Journal of Human Genetics, nel quale hanno identificato quattro regioni correlate con la suscettibilità alla sinestesia, in particolare, quella del cromosoma 2, area già correlata con l’Autismo. Le anomalie sensoriali e percettive sono comuni nei Disturbi dello Spettro Autistico. Esistono diverse forme di sinestesia, quella grafema-colore è la più comune, e permette di vedere un colore associato a una determinata lettera o numero; la sinestesia lessicale-gustativa invece consente di assaporare una particolare parola.

E’ possibile imparare ad avere esperienze sinestetiche?

J. E., Asher, J. A., Lamb, D., Brocklebank, J.B., Cazier, E., Maestrini, L., Addis, M., Sen, S., Baron-Cohen, A.P., Monaco, (2009). A Whole-Genome Scan and Fine-Mapping Linkage Study of Auditory-Visual Synesthesia Reveals Evidence of Linkage to Chromosomes 2q24, 5q33, 6p12, and 12p12, in American Journal of Human Genetics, 84, pp. 279-285
Vasilij Kandinskij Lo spirituale nell’arte SE 2005
Philippe Sers, Kandinskij L’avventura dell’arte astratta Giunti 2017

Arte e neuroni specchio – come la bellezza genera empatia

Arte e neuroni specchio – come la bellezza genera empatia

 

Vilayanur  S. Ramachandra ha detto“I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”. Lo scienziato indiano aveva ragione. La scoperta fondamentale di Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato  alla guida del CNR di Parma, che nel 1992 ha coordinato il pool di ricerca che ha scoperto l’esistenza dei neuroni specchio all’interno della corteccia motoria, ha permesso di spiegare a livello neurologico il meccanismo dell’empatia. Questa particolare classe di cellule nervose, denominate neuroni specchio, sono in grado di attivarsi per imitazione, quando osserviamo qualcuno compiere un gesto, riflettendo, come uno specchio appunto, ciò che “vedono” nel cervello altrui.  Il gruppo di Rizzolatti non si è fermato qui. Hanno utilizzato come stimolo delle sculture classiche greche e le hanno modificate mediante l’applicazione di un algoritmo che ha variato l’equilibrio delle loro misure perfette. Le due tipologie di immagini sono state mostrate a un gruppo di volontari, e sono state osservate le loro reazioni cerebrali grazie alla risonanza magnetica funzionale. Il risultato più interessante ha rivelato che le sculture greche erano in grado di attivare l’attività cerebrale più di quelle modificate, e di attivare in particolare le aree “emozionali” del cervello in cui si trovano i neuroni specchio che permettono l’empatia. Per empatia intendiamo la capacità di “sentire dentro”, di comprendere pienamente lo stato d’animo dell’altro. Sembrerebbe quindi che l’arte possa colpire i centri emozionali del cervello e rendere più forte l’empatia dell’osservatore.

 

Ritratto di Antinoo Osiride

 

Sempre presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma stanno studiando le basi neuroanatomiche della percezione del bello nell’arte. L’ambizioso progetto a cui partecipa la dottoressa Cinzia Di Dio mira a svelare i processi neurologici che si celano dietro l’esperienza estetica; quella esperienza che consiste : “(…) nel fatto che ‘qualcosa’ cattura la nostra attenzione, producendo in noi, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, emozioni e stati d’animo molteplici. Di fatto, è come se quel determinato oggetto, l’oggetto che appunto viene giudicato bello, nel momento stesso in cui si offre alla nostra visione, manifestasse un ‘di più’: qualcosa che non riusciamo a definire mai in modo compiuto e che tuttavia ci coinvolge, stimolando il nostro pensiero e sollecitando la nostra immaginazione.” La nostra capacità di capirci spontaneamente è alla base delle nostre capacità sociali e ci permette di empatizzare, anche con l’opera d’arte. Come scrisse Freud nel 1921: “Una via conduce dall’identificazione, attraverso l’imitazione, all’empatia, cioè alla comprensione dei meccanismi mediante i quali ci è consentito assumere un qualsivoglia atteggiamento nei confronti della vita mentale altrui’.” Il gruppo di Parma ha permesso di comprendere come avvenga questo meccanismo a livello neurologico, grazie all’attivazione del meccanismo specchio che ci permettere di “leggere e vivere” il comportamento dell’altro e sentire gli stati emotivi ad essi associati. Anatomicamente questo avviene grazie all’attivazione dell’insula, che ci permette ci percepire gli stati emotivi degli altri. Il pool di Parma ha scoperto che l’insula si attiva ogni volta che osserviamo un’opera d’arte; possiamo quindi affermare che grazie ai neuroni specchio, non solo l’osservazione di un quadro o di una scultura ci permette di coglierne gli aspetti legati al movimento e all’elaborazione dello stimolo, ma di esperire anche uno stato particolare, che i ricercatori hanno definito esperienza estetica.

 

Gruppo del Laoconte, Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro

 

Sempre lo stesso gruppo di ricerca, in collaborazione con la Columbia University, ha studiato le reazione del cervello degli osservatori di fronte all’arte astratta. Nonostante le tele recise di Fontana abbiano ben poco di “umano” o “corporeo” la reazione a livello neurologico è la stessa. In questo studio, capitanato da Gallese,  sono state mostrate, a un gruppod i volontari, riproduzioni delle tele di Fontana alternate ad uno “stimolo di controllo”: in questo caso un’immagine modificata, in cui il taglio veniva sostituito da una linea. Ogni altro elemento era identico. Dai risultati dello studio è emerso che osservando l’opera dell’artista tutti i soggetti, di estrazione sociale e con un patrimonio culturale eterogeneo, hanno mostrato segnali dell’attivazione del sistema motorio corticale e l’attivazione del meccanismo dei neuroni specchio. I risultato confermano l’ipotesi di Gallese e dello storico dell’arte Freedberg, ovvero che “le tracce del gesto dell’artista sulla tela accendessero nello spettatore le aree motorie che controllano l’esecuzione dei gesti che producono quelle stesse immagini.”  Secondo Gallese “Il corpo è una componente chiave nella fruizione di un’opera artistica (…). Al netto di condizionamenti e mediazioni culturali, che sicuramente hanno un ruolo preponderante nell’esperienza estetica, c’è comunque una risposta empatica di base che scatta di fronte alle immagini, artistiche e non”.

Fontana, “Concetto spaziale, Attesa”

 

Articolo a cura di Valeria Colasanti, psicologa Roma

Per approfondire:

– Freedberg D., Gallese V.  Motion, emotion and empathy in esthetic experience. Trends in Cognitive Science 2007

Rizzolatti G., Fogassi L., Gallese V.  Neurophysiological mechanisms underlying the understanding and imitation of action.  Nature Reviews Neuroscience 2 (2001) 661-670.

Rizzolatti G, Fabbri-Destro M. The mirror system and its role in social cognition. Curr Opinion Neurobiol. (2008) 18,179-84.

Di Dio C, Macaluso E, Rizzolatti G. The golden beauty: brain response to classical and renaissance sculptures.  PLoS ONE.(2007) 2, e1201, 1-8.

trauma e arte

Trauma e arte al femminile – Frida, Camille e Artemisia

Trauma e arte al femminile – Frida, Camille e Artemisia

 

“Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…  il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.” Con queste parole Frida Kahlo, pittrice messicana nata a Coyoacán il 6 luglio 1907, racconta due eventi, traumatici e “bellissimi”, che hanno condizionato tutta la sua esistenza, personale e artistica. Quando aveva soltanto 18 anni Frida rimase coinvolta in un incidente; uno scontro tra l’autobus sul quale stava viaggiando e un tram. “Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro.” L’incidente le procurò due vertebre fratturate, tre fratture del bacino, undici al piede destro, una ferita profonda all’addome che negli anni le avrebbe impedito di portare a termine tre gravidanze. I mesi successivi dovette trascorrerli a casa, bloccata in un busto di gesso. Fu allora, in quella condizione di dolorosa immobilità, che Frida si avvicinò all’arte, alla sua finestra sul mondo dal quale era stata strappata via. Della propria arte disse: “La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore.” Il secondo incidente a cui l’artista si riferisce è la relazione con il marito Diego Rivera, artista e muralista messicano di grande fama, che all’epoca dell’incontro con Frida aveva già due matrimoni alle spalle e quattro figli. La relazione con Diego condusse Frida a provare le più grandi gioie e i più profondi tormenti della sua vita, costantemente tradita dal marito, persino con sua sorella, se ne separò nel 1934 senza mai divorziare. Il loro legame indissolubile, nella sanità di corpo e anima, come nel dolore, viene rappresentato da Frida nell’opera “L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego, e il signor Xòlot” del 1949, sei anni prima della morte dell’artista. In quest’opera Frida rappresenta la maternità; la sua maternità, nei confronti del compagno Diego, rappresentato come un bambino-adulto, nudo tra le sue braccia. Sulla fronte di lui è rappresentato un occhio, simbolo di saggezza. L’occhio permette l’unione e la continuità del rapporto fra i due. Dietro agli sposi si staglia la dea Madre azteca, Cihuacoatl, scolpita nella pietra. Alle spalle della statua e dei due protagonisti è rappresentata la Madre Universale, che a sua volta li abbraccia e li contiene.

 

trauma e arte

 

Un utero universale in grado di contenere la coppia simbiotica e portare a “termine” il loro rapporto. In primo piano, sulla sinistra, è ritratto il cane di Frida, Itzcuintli Señor Xolotl, che rappresenta Xolotl, il guardiano del mondo dei morti, che ha preso la forma del cane per poter osservare il mondo terrestre. Sul suo dorso i morti vengono trasportati di notte nel mondo degli inferi. Il richiamo alla morte è presente in ogni opera della Kahlo, come retaggio culturale, e come elaborazione personale. In un percorso di vita in cui il confronto con lo “smembramento” simbolico e reale del corpo somatico è una costante, dall’incidente fino all’amputazione della gamba che ella dovrà subire. Il talamo nuziale diviene bara, cavalletto dell’artista e porta sul mondo interno. Ed è proprio da un letto che Frida partecipò alla sua prima mostra personale. La sua resilienza eccezionale le permise di trasformare quel letto in una piattaforma di esplorazione universale, superando i limiti che il caso o il destino le hanno presentato ben presto nel suo percorso di vita.

 

Come Frida, anche Camille Claudel ha attraversato i tormenti di una relazione d’amore “impossibile”, con il suo mentore e maestro, August Rodin. In una lettera indirizzata a Anne Rieviére e Bruno Gaudichon ella scrisse: “Ha ragione a pensare che io non sia molto felice, qui: mi sembra di essere così lontana da lei! e di esserle completamente estranea! C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta.”

Il tormento e l’estasi sono condizioni antitetiche che condizionano la vita e la produzione artistica di Camille. Conobbe Renoir nel 1883, divenendo la sua collaboratrice prima e l’amante poi, trovando in lui un padre oltre che un maestro. Realizzò diverse opere ispirate alla loro passione erotica, passione offuscata per un breve periodo dall’avvicinamento al musicista Debussy, al rapporto con il quale sarebbe ispirata una delle sue opere più famose, “La Valse”, una danza tra un uomo e una donna, tra la rappresentazione di eros e thanatos, che termina in una spirale mortifera appena abbozzata nel bronzo. Ma ben presto Renoir la volle di nuovo al suo fianco e Camille abbandonò tutto per seguirlo. Nonostante questo, nel 1892 la loro relazione affronta una nuova crisi; l’artista realizza che Renoir non lascerà mai la moglie e la sua illusione di poter ufficializzare il loro rapporto si infrange. Apparentemente è questo abbandono che la Claudel mette in scena nell’opera “L’Âge Mûr” (L’Età matura), opera inizialmente realizzata in gesso nel 1895 e poi fatta realizzare in bronzo dal committente diversi anni dopo. In questo gruppo scultoreo viene rappresentata una giovane donna, che in ginocchio tenta invano di trattenere una figura maschile che si allontana inesorabilmente, avviluppata da una figura femminile, il cui drappeggio evoca la forma di un’ala, che rappresenta secondo alcuni la morte, secondo altri la moglie di Rodin, mettendo al centro della scena lo stesso scultore, che abbandona la sua giovane amante.

 

 

Un’interpretazione psicoanalitica dell’opera è stata proposta da Luca Trabucco, secondo il quale l’abbandono rappresentato da Camille non è quello subito da parte dell’amante, ma un abbandono vissuto durante l’infanzia. Il rapporto dell’artista con la figura materna è tormentato. Quando la giovane decide di internarsi in manicomio dopo la morte del padre, la donna non va mai a farle visita; quando i medici decidono di dimetterla la madre si oppone. Delusa dalla figura femminile, Camille, in questa interpretazione, si sarebbe rivolta al padre, idealizzato, che apparentemente la sostiene, ma la rende fragile in virtù del suo trionfo edipico che le impedisce un’identificazione positiva con la madre e la femminilità. Potremmo leggere in quest’opera un tradimento culturale, non solo relazionale e umano, di una grande artista mai riconosciuta in vita. Quell’uomo che le volta le spalle è proprio l’Accademia, che si ostina a non vedere il grande talento espressivo e artistico di Camille.

Tornando ancora più indietro nel tempo nel nostro viaggio alla scoperta del rapporto tra arte al femminile e trauma incontriamo Artemisia Gentileschi. Figlia del pittore Orazio, viene fin da piccola spronata a seguire il suo amore per la pittura. Venne affidata all’amico di famiglia Agostino Tassi per la sua educazione artistica, ma nel 1611 egli abusò di lei. La testimonianza della violenza resa da Artemisia al processo è vivida e cruda nei dettagli, aspetti che ritornano nella sua produzione artistica di ispirazione caravaggesca. “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”. Durante il processo Artemisia, per dimostrare di aver detto il vero, viene sottoposta a tortura. Le venivano schiacciati i pollici fino a rischiare di fratturarli, per mettere alla prova la sua buona fede. Con la sua proverbiale resistenza, fisica e psichica, Artemisia non si arrende e vince il processo. Il suo aggressore viene condannato a diversi anni di carcere. Questa esperienza segna indelebilmente la vita e l’opera dell’artista. Un ritratto sanguigno, violento, dinamico e drammatico è quello che Artemisia elabora delle vicende bibliche che ritrae nelle sue opere, più realistico rispetto all’arte dell’epoca. Nella tela “Giuditta e Oloferne” questi elementi sono evidenti. Giuditta, in cui l’artista si ritrae, è rappresentata nell’atto di trafiggere la giugulare di Oloferne, rappresentazione di Agostino, a cui la giovane taglia la testa. Il pugno chiuso con cui la donna tiene ferma la testa di Oloferne, mentre affonda il coltello nella carne del suo collo evoca con dovizia di particolari la violenza della scena, della quale si potrebbe percepire persino l’odore di sangue. Altrettanto “brutale” e trionfante è Artemisia nel suo percorso artistico, che la condusse a essere riconosciuta nelle corti europee come alla pari dei suoi colleghi uomini.

 

 

 

Questi tre ritratti femminili rappresentano idealmente il rapporto tra trauma e resilienza, in tre percorsi personali in cui l’arte diviene strumento e tramite dell’elaborazione del vissuto traumatico. Arte come espressione del trauma, arte come strumento per elaborarlo e superarlo. L’arte rende sostenibile o addirittura allontana, almeno temporaneamente, il dolore e raggiungere la felicità. “Scrivere è un piacere profondo… nessuno potrà dire di me ch’io non abbia conosciuto la perfetta felicità… non saprei immaginare nulla di meglio.” Scrisse Virginia Woolf.

 

articolo a cura della dottoressa Valeria Colasanti