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L’origine dell’arte – dalle pitture rupestri di Lascaux a oggi

Pittura di Lascaux

“Gli uomini di Cro-Magnon che quindicimila anni fa dipingevano le grotte di Altamira e di Lascaux siamo noi, e uno sguardo all’incredibile ricchezza e bellezza di quest’opera ci convince, nel modo più istintivo e viscerale, che Picasso non aveva un vantaggio, quanto a raffinatezza mentale, su quegli antenati con cervelli identici ai nostri.”

Le parole di Stephen Gould, paleontologo e biologo, restituiscono il senso di infinita meraviglia che un esemplare di uomo moderno può sperimentare di fronte alle pitture rupestri delle grotte di Lascaux, nella zona Franco Cantabrica. Nella zona della Francia Sud – Occidentale e della Spagna Settentrionale si possono ammirare le caverne di Niaux (scoperta nel 1864), Lascaux, Chauvet e Altamira. In Italia è conosciuto al momento solamente il sito di Grotta Paglicci, in Puglia, mentre altre grotte sono state ritrovate recentemente in Australia e in Africa.
Le pitture di Chauvet sono risultate le più antiche, databili ben 32.900 anni fa, nel Paleolitico Superiore.

I soggetti rappresentati dall’arte pittorica dell’epoca rientrano in tre gruppi: gli animali, le impronte delle mani, le figure antropomorfe. La maggior parte delle rappresentazioni finora scoperte ritraggono gli animali; in particolare grandi erbivori rappresentanti nell’atto di fuggire durante affollate scene di caccia. Pesci, uccelli ed elementi vegetali sono praticamente assenti. Gli autori di queste immagini erano gli uomini di Cro-Magnon, una variante della specie Sapiens Sapiens. Prevalentemente raccoglitori e cacciatori era totalmente dipendenti dal mondo naturale. Nei siti della zona Franco Cantabrica è stata rilevata una tecnica specifica composta da due fasi: la prima prevedeva l’incisione o il disegno a carboncino dei contorni della figura, che in una seconda fase veniva colorata con dell’ocra rossa. Spesso le incisioni venivano eseguite nella parte più interna e inaccessibile della caverna.

Queste scene colpiscono per la vitalità e il dinamismo delle rappresentazioni, sebbene bidimensionali, incredibilmente espressive, vive e drammatiche. Spesso gli elementi architettonici naturali venivano sfruttati per trasferire maggiore verosimiglianza alle immagini, spesso accompagnate da pittogrammi e simboli al momento ancora indecifrabili. Nel tempo diversi studiosi si sono approcciati a queste opere nel tentativo di interpretarle e comprenderle. Inizialmente l’uomo del Paleolitico veniva visto come un raccoglitore immerso in un ambiente ricco di risorse, in cui sopravvivere era facile, grazie all’abbondanza di selvaggina e risorse naturali. Nel tempo libero, quindi, questa variante del Sapiens Sapiens avrebbe avuto tempo di dedicarsi alla pittura rupestre secondo questi teorici. “Questa concezione si inseriva perfettamente in una visione dell’uomo preistorico ancora privo di qualunque forma di religione. La scoperta dell’arte parietale alla fine del XIX secolo determinò la crisi di queste idee, dimostrando che l’arte paleolitica era un fenomeno ben più complesso.”

Pitture rupestri di Lascaux


Anche i luoghi in cui queste pitture erano eseguite suggeriva un intento ben diverso dalla mera rappresentazione figurativa a fini estetici. È con l’abate Henri Breuil agli inizi del secolo scorso che prende piede la concezione magico – rituale dell’arte paleolitica. L’arte rupestre era interpretata come un rito propiziatorio della caccia. Incidere sulla pietra l’immagine della preda avrebbe concesso agli uomini di assicurarsi la vittoria sulla preda, e la rappresentazione stessa sarebbe avvenuta all’interno di rituali magici ospitati nel ventre nascosto delle caverne.

“Questi riti magici includevano la raffigurazione degli animali sulle pareti delle grotte. Ma questa magia non aveva nulla in comune con quello che noi intendiamo per religione, nel senso di credenza in potenze ultraterrene. Le immagini facevano parte dell’apparato di questa magia, perché esse erano insieme rappresentazione e cosa rappresentata.
Nell’immagine da lui dipinta, il cacciatore paleolitico aveva la convinzione di possedere la cosa stessa; credeva, riproducendolo, di acquistare un potere sull’oggetto. La rappresentazione era l’anticipazione dell’evento. Non si trattava, dunque, di sostituzioni simboliche, ma di vere azioni dirette ad uno scopo, atti reali che ottenevano effetti reali. Una sorta di incantesimo.” Non vi sarebbe stata separazione, quindi, tra arte e realtà. Le mani rappresentate attorno a queste figure rappresenterebbero in senso concerto la presa di possesso dell’oggetto rappresentato; accumulandosi nel tempo nei siti in cui questi nostri antenati vivevano e prosperavano.

Dopo soltanto quattro anni dalla morte di Breuil l’opera “Préhistoire de l’art occidental” di André Leroi-Gourhan cambia completamente il paradigma interpretativo dell’arte del Paleolitico.
Tra il1945 e 1965 Leroi – Gourhan fotografò e riprodusse in scala le planimetrie di ogni caverna conosciuta producendo un repertorio classificato per voci distinte, individuando quattro stili che hanno delineato lo sviluppo cronologico e stilistico dell’arte dell’epoca.

Lo stile I o prima fase primitiva si sviluppa all’incirca tra 32000 e 25000 BP (BP sta per before present). In questo periodo, secondo Leroi-Gourhan, non esiste ancora arte parietale. Le rare manifestazioni artistiche comprendono rare figure animali, spesso solo accennate, e numerose figure schematiche di organi sessuali, prevalentemente femminili.

Lo stile II o seconda fase primitiva si data tra il 25000 e il 19000 BP e con esso ha inizio l’arte parietale nelle caverne, ma solo nelle parti più vicine all’entrata, raggiungibili dalla luce del giorno. Le figure animali sono tracciate secondo uno stile sintetico, con la linea cervico-dorsale ad andamento sinuoso. In genere la parte anteriore del corpo è maggiormente sviluppata (dorso, testa e corna), mentre i dettagli anatomici sono piuttosto schematici.

Lo stile III o Arcaico si sviluppa lungo l’arco di 4000 anni, tra 19.000 e 15.000 BP. Le pitture e le incisioni vengono ora eseguite nelle parti più profonde e recondite delle caverne, a volte di accesso estremamente difficoltoso.” Sebbene mantenga aspetti dello stile precedente come la linea cervici-dorsale sinuosa e le dimensioni voluminose la figura animale è più completa, appaiono dettagli delle pelli e le caratteristiche specie specifiche, rappresentate in modo bicromatico. La grotta di Lascaux è attribuita a questo stile.

“Lo stile IV o Classico segna l’apogeo dell’arte paleolitica sia parietale che mobiliare all’incirca tra 15000 e 11000 BP. A questo periodo appartiene la maggior parte di tutte le opere d’arte parietale e mobiliare del Paleolitico superiore. Fu, quindi, un periodo di grande creatività e fioritura artistica.” L’animale rappresentato è più realistico in termini di proporzioni, movimento e prospettiva. “Le pitture possono essere a linea di contorno nera con spazio interno vuoto oppure a campitura policroma con uso di colori diversi e di diversa intensità di tono per le varie parti del corpo. Questo consente all’artista paleolitico di realizzare effetti chiaroscurali.”

La fase più recente è contraddistinta da uno stile ancor più realistico, come Las Monedas e Altamira nella regione cantabrica.

La grande innovazione insita nella teoria di Leroi-Gourhan sull’interpretazione dell’arte paleolitica è l’affermazione del carattere non utilitaristico e magico sostenuto da Breuil, ma mitico religioso. I pittori non hanno rappresentato animali a caso, ma determinati animali, i quali non svolgevano necessariamente un ruolo. L’arte delle caverne è un gioco costante di associazioni simboliche, fondate su un sistema dualista il cui tema fondamentale è la coppia primordiale Bisonte-Cavallo, animali che rappresentano due principi opposti e nello stesso tempo complementari, dove il cavallo è il simbolo del principio maschile, il bisonte di quello femminile. “L’analisi di Leroi-Gourhan ha dimostrato che nell’arte parietale la disposizione delle figure animali e dei segni non è casuale, ma risponde a uno schema generale, una struttura che costituisce una forma di linguaggio simbolico, accuratamente codificato. L’arte parietale esprime, quindi, una visione del mondo, una cosmologia, quella dei popoli cacciatori del Paleolitico superiore, accentrata sulla divisione della natura in elementi femminili ed elementi maschili.”

Come ha osservato il filosofo Cassirer, “attraverso il simbolo l’uomo riconosce ed esprime in forma sacrale o rituale le potenti forze che sente intorno a sé, in questo modo le domina e le conduce al controllo sociale”.
Secondo Leroi-Gourhan, in conclusione, l’arte paleolitica è un mitogramma, “un insieme strutturato di figure simboliche che non esprimono una determinata azione, non hanno carattere descrittivo, non hanno bisogno di una struttura narrativa, ma sono immediatamente comprese da coloro che fanno parte della società che le ha prodotte (a noi moderni restano invece oscure, in quanto non possediamo più i codici di interpretazione).” Secondo questa interpretazione le caverne sarebbero “templi” in cui visivamente e immediatamente erano rappresentate le prime forme di mitologie cosmogoniche.

L’espressione artistica compare con la maturazione definitiva delle strutture e dei processi cerebrali che permettono il linguaggio, l’immaginazione e il pensiero simbolico astratto.

Dott. ssa Valeria Colasanti

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L’origine dell’arte
dalle pitture rupestri di Lascaux a oggi

Per Approfondire

Raffaele C. de Marinis, L’arte Paleolitica, Dispensa del corso di Preistoria, A.A. 2006/2007.

Gloria Fossi (a cura di), Arte viva. Dalla preistoria al gotico, Artedossier, Giunti.

André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi 1977.

André Leroi-Gourhan, Interprétation esthétique et religieuse des figures et symboles dans la préhistoire, In Archives des sciences sociales des religions, N. 42, 1976.

Vedere la musica – Kandinskij e la sinestesia

“Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale, quando l’inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita.”

Vasilij Vasil’evič Kandinskij descrisse con queste parole il fenomeno che gli ha permesso di tradurre la musica in colori. Per alcuni studiosi dell’arte la sinestesia di Kandinskij era soltanto una particolare sensibilità di spirito, una peculiare capacità che gli consentiva, il giorno dopo aver assistito al concerto di Arnold Schönberg a Monaco, di dipingerlo. Riconosciuto come il padre dell’arte astratta, autore del fondamentale volume “Lo spirituale nell’arte” pubblicato nel 1912, in cui presagiva, alla stregua di un profeta laico, che l’arte veicola contenuti spirituali, e che ciò avrebbe portato a prescindere dalla raffigurazione.
«L’arte non è questione di elementi formali, ma di un desiderio (=contenuto) interiore che determina prepotentemente la forma».

L’artista e teorico russo si interessa trasversalmente alle arti, essendo attivo e interessandosi di musica e letteratura, proprio perché per Kandinskij il concetto di arte può essere esteso alle manifestazioni capaci di destare emozioni e sentimenti durevoli e, in quanto tali, autentici. A tal proposito il concetto di interdisciplinarietà artistica a cui fa riferimento viene osservato per la prima volta con grande convinzione nel 1912 nell’almanacco de Il cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter), a cui Kandinskij lavora col pittore Franz Marc.
“Quando si vivono momenti di decadenza spirituale l’evoluzione dell’uomo stenta. La principale preoccupazione di molti diventa placare la sete di beni materiali che fa ristagnare nel torpore la sensibilità collettiva. L’artista, attraverso il proprio talento, riesce a mettere in contatto lo spettatore con il contenuto della propria opera, spalanca le porte delle sue emozioni, parla alla sua anima.”

Spiritualità e assoluto vengono definiti da Kandinskij come elementi irrinunciabili di qualsiasi opera artistica. Tra le opere più celebri dell’artista russo vengono ricordate la serie delle “Improvvisazioni” e i disegni delle “Composizioni”. Fin dal titolo è evidente lo stretto collegamento tra arte visiva e musica che Kandinskij riesce a rendere evidente nelle sue opere. È proprio riguardo a questa serie di dipinti e disegni che alcuni teorici parlano di sinestesia in riferimento a Kandinskij. In dipinti quali “Liricamente” del 1911 o nel più tardivo e maturo “Composizioni IIIV” del 1923 la sua pittura diviene, al pari della musica, una composizione, data dalla combinazione di due elementi: la forma e il colore. La forma non è solo ciò che delimita la superficie di un oggetto (forma esteriore), ma ha anche una qualità astratta (forma interiore). “La forma esteriore di un dipinto risponde a quello che Kandinskij definisce principio della necessità interiore, a indicare che la pittura muove dall’anima, oltrepassa la figurazione e approda all’astrazione. Anche il colore ha un’innegabile qualità esteriore, ma è ricco di infinite risonanze interiori che accendono e sollecitano in mille modi l’immaginazione di chi osserva.”

Kandinsy stesso affermò di non essere un simbolista, ma si avvicinò molto all’esserlo, considerando che attribuì un significato ad ogni colore, in rappresentanza di emozioni, elementi spirituali e sensoriali. Il giallo per l’artista rappresenta l’energia vitale, la forza centrifuga, paragonabile al suono di una tromba. L’azzurro è al contrario, freddo, dotato di forza centripeta, simile al suono di un flauto.
Per Kandinskij,”La musica è il veicolo privilegiato per congiungersi alla dimensione fisica e psichica dell’astrattismo puro e alla forma spogliata da interpretare in senso mistico e cosmico.”

Composizione VIII
Liricamente

Se questa capacità fosse dovuta alla sua elaborazione teoretica espressa nel “manifesto” del Der Blaue Reiter, o fosse dovuto a delle esperienze percettive riconducibili al fenomeno della sinestesia, non muta il ruolo fondamentale avuto da Kandinskij nell’arte del ‘900. Ma cosa si intende esattamente per sinestesia? Il termine deriva dal greco Syn, ‘insieme‘, e Aisthànestai, ‘percepire‘, ovvero ‘percepire insieme, sentire insieme’.

Per sinestesia si intende un’esperienza di percezione simultanea di stimoli appartenenti a domini sensoriali diversi, come vedere un colore o assaporare un suono. In questo fenomeno una stimolazione sensoriale è in grado di provocare la percezione di due eventi sensoriali diversi e simultanei, uno dei quali si aggiunge al primo e non è connesso alle caratteristiche dello stimolo originario. Secondo le stime 1 persona su 23 presenta questa condizione.

Secondo alcuni ricercatori il fenomeno sarebbe da ricondurre a fattori genetici ereditari, mentre per altri si tratterebbe di una condizione attivata da particolari condizioni ambientali. I ricercatori del Dipartimento di Genomica dell’Imperial College di Londra, hanno pubblicato uno studio sull’American Journal of Human Genetics, nel quale hanno identificato quattro regioni correlate con la suscettibilità alla sinestesia, in particolare, quella del cromosoma 2, area già correlata con l’Autismo. Le anomalie sensoriali e percettive sono comuni nei Disturbi dello Spettro Autistico. Esistono diverse forme di sinestesia, quella grafema-colore è la più comune, e permette di vedere un colore associato a una determinata lettera o numero; la sinestesia lessicale-gustativa invece consente di assaporare una particolare parola.

E’ possibile imparare ad avere esperienze sinestetiche?

J. E., Asher, J. A., Lamb, D., Brocklebank, J.B., Cazier, E., Maestrini, L., Addis, M., Sen, S., Baron-Cohen, A.P., Monaco, (2009). A Whole-Genome Scan and Fine-Mapping Linkage Study of Auditory-Visual Synesthesia Reveals Evidence of Linkage to Chromosomes 2q24, 5q33, 6p12, and 12p12, in American Journal of Human Genetics, 84, pp. 279-285
Vasilij Kandinskij Lo spirituale nell’arte SE 2005
Philippe Sers, Kandinskij L’avventura dell’arte astratta Giunti 2017

Arte e neuroni specchio – come la bellezza genera empatia

Arte e neuroni specchio – come la bellezza genera empatia

 

Vilayanur  S. Ramachandra ha detto“I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”. Lo scienziato indiano aveva ragione. La scoperta fondamentale di Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato  alla guida del CNR di Parma, che nel 1992 ha coordinato il pool di ricerca che ha scoperto l’esistenza dei neuroni specchio all’interno della corteccia motoria, ha permesso di spiegare a livello neurologico il meccanismo dell’empatia. Questa particolare classe di cellule nervose, denominate neuroni specchio, sono in grado di attivarsi per imitazione, quando osserviamo qualcuno compiere un gesto, riflettendo, come uno specchio appunto, ciò che “vedono” nel cervello altrui.  Il gruppo di Rizzolatti non si è fermato qui. Hanno utilizzato come stimolo delle sculture classiche greche e le hanno modificate mediante l’applicazione di un algoritmo che ha variato l’equilibrio delle loro misure perfette. Le due tipologie di immagini sono state mostrate a un gruppo di volontari, e sono state osservate le loro reazioni cerebrali grazie alla risonanza magnetica funzionale. Il risultato più interessante ha rivelato che le sculture greche erano in grado di attivare l’attività cerebrale più di quelle modificate, e di attivare in particolare le aree “emozionali” del cervello in cui si trovano i neuroni specchio che permettono l’empatia. Per empatia intendiamo la capacità di “sentire dentro”, di comprendere pienamente lo stato d’animo dell’altro. Sembrerebbe quindi che l’arte possa colpire i centri emozionali del cervello e rendere più forte l’empatia dell’osservatore.

 

Ritratto di Antinoo Osiride

 

Sempre presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma stanno studiando le basi neuroanatomiche della percezione del bello nell’arte. L’ambizioso progetto a cui partecipa la dottoressa Cinzia Di Dio mira a svelare i processi neurologici che si celano dietro l’esperienza estetica; quella esperienza che consiste : “(…) nel fatto che ‘qualcosa’ cattura la nostra attenzione, producendo in noi, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, emozioni e stati d’animo molteplici. Di fatto, è come se quel determinato oggetto, l’oggetto che appunto viene giudicato bello, nel momento stesso in cui si offre alla nostra visione, manifestasse un ‘di più’: qualcosa che non riusciamo a definire mai in modo compiuto e che tuttavia ci coinvolge, stimolando il nostro pensiero e sollecitando la nostra immaginazione.” La nostra capacità di capirci spontaneamente è alla base delle nostre capacità sociali e ci permette di empatizzare, anche con l’opera d’arte. Come scrisse Freud nel 1921: “Una via conduce dall’identificazione, attraverso l’imitazione, all’empatia, cioè alla comprensione dei meccanismi mediante i quali ci è consentito assumere un qualsivoglia atteggiamento nei confronti della vita mentale altrui’.” Il gruppo di Parma ha permesso di comprendere come avvenga questo meccanismo a livello neurologico, grazie all’attivazione del meccanismo specchio che ci permettere di “leggere e vivere” il comportamento dell’altro e sentire gli stati emotivi ad essi associati. Anatomicamente questo avviene grazie all’attivazione dell’insula, che ci permette ci percepire gli stati emotivi degli altri. Il pool di Parma ha scoperto che l’insula si attiva ogni volta che osserviamo un’opera d’arte; possiamo quindi affermare che grazie ai neuroni specchio, non solo l’osservazione di un quadro o di una scultura ci permette di coglierne gli aspetti legati al movimento e all’elaborazione dello stimolo, ma di esperire anche uno stato particolare, che i ricercatori hanno definito esperienza estetica.

 

Gruppo del Laoconte, Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro

 

Sempre lo stesso gruppo di ricerca, in collaborazione con la Columbia University, ha studiato le reazione del cervello degli osservatori di fronte all’arte astratta. Nonostante le tele recise di Fontana abbiano ben poco di “umano” o “corporeo” la reazione a livello neurologico è la stessa. In questo studio, capitanato da Gallese,  sono state mostrate, a un gruppod i volontari, riproduzioni delle tele di Fontana alternate ad uno “stimolo di controllo”: in questo caso un’immagine modificata, in cui il taglio veniva sostituito da una linea. Ogni altro elemento era identico. Dai risultati dello studio è emerso che osservando l’opera dell’artista tutti i soggetti, di estrazione sociale e con un patrimonio culturale eterogeneo, hanno mostrato segnali dell’attivazione del sistema motorio corticale e l’attivazione del meccanismo dei neuroni specchio. I risultato confermano l’ipotesi di Gallese e dello storico dell’arte Freedberg, ovvero che “le tracce del gesto dell’artista sulla tela accendessero nello spettatore le aree motorie che controllano l’esecuzione dei gesti che producono quelle stesse immagini.”  Secondo Gallese “Il corpo è una componente chiave nella fruizione di un’opera artistica (…). Al netto di condizionamenti e mediazioni culturali, che sicuramente hanno un ruolo preponderante nell’esperienza estetica, c’è comunque una risposta empatica di base che scatta di fronte alle immagini, artistiche e non”.

Fontana, “Concetto spaziale, Attesa”

 

Articolo a cura di Valeria Colasanti, psicologa Roma

Per approfondire:

– Freedberg D., Gallese V.  Motion, emotion and empathy in esthetic experience. Trends in Cognitive Science 2007

Rizzolatti G., Fogassi L., Gallese V.  Neurophysiological mechanisms underlying the understanding and imitation of action.  Nature Reviews Neuroscience 2 (2001) 661-670.

Rizzolatti G, Fabbri-Destro M. The mirror system and its role in social cognition. Curr Opinion Neurobiol. (2008) 18,179-84.

Di Dio C, Macaluso E, Rizzolatti G. The golden beauty: brain response to classical and renaissance sculptures.  PLoS ONE.(2007) 2, e1201, 1-8.

trauma e arte

Trauma e arte al femminile – Frida, Camille e Artemisia

Trauma e arte al femminile – Frida, Camille e Artemisia

 

“Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…  il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.” Con queste parole Frida Kahlo, pittrice messicana nata a Coyoacán il 6 luglio 1907, racconta due eventi, traumatici e “bellissimi”, che hanno condizionato tutta la sua esistenza, personale e artistica. Quando aveva soltanto 18 anni Frida rimase coinvolta in un incidente; uno scontro tra l’autobus sul quale stava viaggiando e un tram. “Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro.” L’incidente le procurò due vertebre fratturate, tre fratture del bacino, undici al piede destro, una ferita profonda all’addome che negli anni le avrebbe impedito di portare a termine tre gravidanze. I mesi successivi dovette trascorrerli a casa, bloccata in un busto di gesso. Fu allora, in quella condizione di dolorosa immobilità, che Frida si avvicinò all’arte, alla sua finestra sul mondo dal quale era stata strappata via. Della propria arte disse: “La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore.” Il secondo incidente a cui l’artista si riferisce è la relazione con il marito Diego Rivera, artista e muralista messicano di grande fama, che all’epoca dell’incontro con Frida aveva già due matrimoni alle spalle e quattro figli. La relazione con Diego condusse Frida a provare le più grandi gioie e i più profondi tormenti della sua vita, costantemente tradita dal marito, persino con sua sorella, se ne separò nel 1934 senza mai divorziare. Il loro legame indissolubile, nella sanità di corpo e anima, come nel dolore, viene rappresentato da Frida nell’opera “L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego, e il signor Xòlot” del 1949, sei anni prima della morte dell’artista. In quest’opera Frida rappresenta la maternità; la sua maternità, nei confronti del compagno Diego, rappresentato come un bambino-adulto, nudo tra le sue braccia. Sulla fronte di lui è rappresentato un occhio, simbolo di saggezza. L’occhio permette l’unione e la continuità del rapporto fra i due. Dietro agli sposi si staglia la dea Madre azteca, Cihuacoatl, scolpita nella pietra. Alle spalle della statua e dei due protagonisti è rappresentata la Madre Universale, che a sua volta li abbraccia e li contiene.

 

trauma e arte

 

Un utero universale in grado di contenere la coppia simbiotica e portare a “termine” il loro rapporto. In primo piano, sulla sinistra, è ritratto il cane di Frida, Itzcuintli Señor Xolotl, che rappresenta Xolotl, il guardiano del mondo dei morti, che ha preso la forma del cane per poter osservare il mondo terrestre. Sul suo dorso i morti vengono trasportati di notte nel mondo degli inferi. Il richiamo alla morte è presente in ogni opera della Kahlo, come retaggio culturale, e come elaborazione personale. In un percorso di vita in cui il confronto con lo “smembramento” simbolico e reale del corpo somatico è una costante, dall’incidente fino all’amputazione della gamba che ella dovrà subire. Il talamo nuziale diviene bara, cavalletto dell’artista e porta sul mondo interno. Ed è proprio da un letto che Frida partecipò alla sua prima mostra personale. La sua resilienza eccezionale le permise di trasformare quel letto in una piattaforma di esplorazione universale, superando i limiti che il caso o il destino le hanno presentato ben presto nel suo percorso di vita.

 

Come Frida, anche Camille Claudel ha attraversato i tormenti di una relazione d’amore “impossibile”, con il suo mentore e maestro, August Rodin. In una lettera indirizzata a Anne Rieviére e Bruno Gaudichon ella scrisse: “Ha ragione a pensare che io non sia molto felice, qui: mi sembra di essere così lontana da lei! e di esserle completamente estranea! C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta.”

Il tormento e l’estasi sono condizioni antitetiche che condizionano la vita e la produzione artistica di Camille. Conobbe Renoir nel 1883, divenendo la sua collaboratrice prima e l’amante poi, trovando in lui un padre oltre che un maestro. Realizzò diverse opere ispirate alla loro passione erotica, passione offuscata per un breve periodo dall’avvicinamento al musicista Debussy, al rapporto con il quale sarebbe ispirata una delle sue opere più famose, “La Valse”, una danza tra un uomo e una donna, tra la rappresentazione di eros e thanatos, che termina in una spirale mortifera appena abbozzata nel bronzo. Ma ben presto Renoir la volle di nuovo al suo fianco e Camille abbandonò tutto per seguirlo. Nonostante questo, nel 1892 la loro relazione affronta una nuova crisi; l’artista realizza che Renoir non lascerà mai la moglie e la sua illusione di poter ufficializzare il loro rapporto si infrange. Apparentemente è questo abbandono che la Claudel mette in scena nell’opera “L’Âge Mûr” (L’Età matura), opera inizialmente realizzata in gesso nel 1895 e poi fatta realizzare in bronzo dal committente diversi anni dopo. In questo gruppo scultoreo viene rappresentata una giovane donna, che in ginocchio tenta invano di trattenere una figura maschile che si allontana inesorabilmente, avviluppata da una figura femminile, il cui drappeggio evoca la forma di un’ala, che rappresenta secondo alcuni la morte, secondo altri la moglie di Rodin, mettendo al centro della scena lo stesso scultore, che abbandona la sua giovane amante.

 

 

Un’interpretazione psicoanalitica dell’opera è stata proposta da Luca Trabucco, secondo il quale l’abbandono rappresentato da Camille non è quello subito da parte dell’amante, ma un abbandono vissuto durante l’infanzia. Il rapporto dell’artista con la figura materna è tormentato. Quando la giovane decide di internarsi in manicomio dopo la morte del padre, la donna non va mai a farle visita; quando i medici decidono di dimetterla la madre si oppone. Delusa dalla figura femminile, Camille, in questa interpretazione, si sarebbe rivolta al padre, idealizzato, che apparentemente la sostiene, ma la rende fragile in virtù del suo trionfo edipico che le impedisce un’identificazione positiva con la madre e la femminilità. Potremmo leggere in quest’opera un tradimento culturale, non solo relazionale e umano, di una grande artista mai riconosciuta in vita. Quell’uomo che le volta le spalle è proprio l’Accademia, che si ostina a non vedere il grande talento espressivo e artistico di Camille.

Tornando ancora più indietro nel tempo nel nostro viaggio alla scoperta del rapporto tra arte al femminile e trauma incontriamo Artemisia Gentileschi. Figlia del pittore Orazio, viene fin da piccola spronata a seguire il suo amore per la pittura. Venne affidata all’amico di famiglia Agostino Tassi per la sua educazione artistica, ma nel 1611 egli abusò di lei. La testimonianza della violenza resa da Artemisia al processo è vivida e cruda nei dettagli, aspetti che ritornano nella sua produzione artistica di ispirazione caravaggesca. “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”. Durante il processo Artemisia, per dimostrare di aver detto il vero, viene sottoposta a tortura. Le venivano schiacciati i pollici fino a rischiare di fratturarli, per mettere alla prova la sua buona fede. Con la sua proverbiale resistenza, fisica e psichica, Artemisia non si arrende e vince il processo. Il suo aggressore viene condannato a diversi anni di carcere. Questa esperienza segna indelebilmente la vita e l’opera dell’artista. Un ritratto sanguigno, violento, dinamico e drammatico è quello che Artemisia elabora delle vicende bibliche che ritrae nelle sue opere, più realistico rispetto all’arte dell’epoca. Nella tela “Giuditta e Oloferne” questi elementi sono evidenti. Giuditta, in cui l’artista si ritrae, è rappresentata nell’atto di trafiggere la giugulare di Oloferne, rappresentazione di Agostino, a cui la giovane taglia la testa. Il pugno chiuso con cui la donna tiene ferma la testa di Oloferne, mentre affonda il coltello nella carne del suo collo evoca con dovizia di particolari la violenza della scena, della quale si potrebbe percepire persino l’odore di sangue. Altrettanto “brutale” e trionfante è Artemisia nel suo percorso artistico, che la condusse a essere riconosciuta nelle corti europee come alla pari dei suoi colleghi uomini.

 

 

 

Questi tre ritratti femminili rappresentano idealmente il rapporto tra trauma e resilienza, in tre percorsi personali in cui l’arte diviene strumento e tramite dell’elaborazione del vissuto traumatico. Arte come espressione del trauma, arte come strumento per elaborarlo e superarlo. L’arte rende sostenibile o addirittura allontana, almeno temporaneamente, il dolore e raggiungere la felicità. “Scrivere è un piacere profondo… nessuno potrà dire di me ch’io non abbia conosciuto la perfetta felicità… non saprei immaginare nulla di meglio.” Scrisse Virginia Woolf.

 

articolo a cura della dottoressa Valeria Colasanti

 

Il butoh – la danza psicosomatica

il Butoh – la danza psicosomatica

 

Un uomo nudo danza, con il corpo completamente ricoperto di pittura bianca. Le membra scosse da tremori sincopati e dolenti. La mimica del suo viso si tende, digrigna i denti, soffre, mentre ogni muscolo del suo corpo  si contrare in spasmi ritmici che compongono la danza delle tenebre.

 

 

 

Il butoh nasce in Giappone, tra gli anni cinquanta e sessanta grazie agli sforzi di Tatsumi Hijikata, e Kazuo Ohno. In origine il movimento artistico del Butoh si caratterizzava per il suo aspetto provocatorio, mettendo in scena tabù sessuali, una rappresentazione grottesca, decadente, mortifera eppure umoristica, in cui il corpo è sempre al centro della scena. L’attore è organico, amplia il concetto di danza trascendendo il concetto di estetica, diventando egli stesso luogo della rappresentazione drammatica. Per molti il Butoh rappresenta un “grido primordiale che annienta e vanifica ogni norma, la trasformazione e la metamorfosi della ribellione del corpo naturale contro la violenza della cultura, che porta alla luce pure visioni dal subconscio sostenute unicamente dall’urgenza del desiderio e dell’istinto primitivo. É la lotta delle cose invisibili all’interno del corpo che, una volta portata all’esterno, acquisisce una valenza sacrale. L’universo diventa il vestito del corpo ed il corpo diventa il contenitore dell’anima.”

Questo movimento artistico che esalta la capacità del corpo di rappresentare il dramma della vita umana, in costante conflitto tra natura e cultura, esalta il legame viscerale con il mondo, andando a pescare i propri rimandi e simboli nel patrimonio dell’inconscio collettivo. Secondo molti sostenitori di Grotowsky il Butoh e il suo impegnativo training rappresenta una modalità per esplorare e integrare la dimensione psicosomatica. Nella danza del Butoh l’attore è rivolto verso l’interno di sé, e vibrando crea un nuovo spazio onirico in cui la presenza umana sembra combattere con la sua natura caduca e mortale. Cifra stilisti del Butoh è sperimentare difersi tipi di esistenza, l’utilizzo dinamico del vuoto, l’improvvisazione, la surrealtà, la nudità, e la pittura del corpo.

Il Butoh persegue il fine di unire il danzatore e il luogo in cui avviene la danza, unione che ha sede nel corpo. Per questo il Butoh non avveniva in origine in luoghi specifici, ma era improvvisato per strada, e in ogni tipo di luogo in cui potevano essere coinvolte più persone.  “La proposta del butô e del Nô ha una concordanza radicale: chi pratica queste vie si interroga sulla costrizione del presente. Di istante in istante ad occhi aperti mette in scena l’ineluttabile: una mano, un uomo, una donna, una storia, la vita. Un gesto solo. E la scintilla che di questo è cosciente.”

Ôno dice al riguardo: “come danzatori noi non possiamo non porci la questione: cosa sia la realtà?” Hijikata Tatsumi riteneva che: “Persino le vostre stesse braccia, profondamente ancorate nel vostro corpo, le sentite estranee a voi stessi, sentite che non dipendono da voi. Qui giace un importante segreto. L’essenza radicale del butô è nascosta qui.” Un braccio può bastare, per dire tutto. Il singolo atto dello stare al mondo, inteso in senso letterale, diviene un atto di ribellione di fronte al caos del mondo, dinanzi alla sovrastrutture culturali, e può, di per sé, diventare un manifesto di esistenza e ribellione. Nel Butoh contemporaneo, presso la scuola Ôno, chi desidera diventare un danzatore deve passare cinque anni ad esercitarsi solo per camminare, e anni per imparare a stare fermi.

Vorrei citare le parole di Bateson, ricordando che anche quando siamo immobili, intenti in una conversazione, non comunichiamo solo con le parole, ma con gesti, sguardi, toni e silenzi. “Una lingua è prima di tutto un sistema di gesti. Le parole furono inventate molto più tardi.” In questo senso il Butoh è una comunicazione protolinguistica, psicosomatica, capace di comunicare l’inquietudine dell’esistenza umana senza bisogno di ricorrere alla comunicazione verbale.

 

Salerno Giorgio, Suoni del corpo, segni del cuore. La danza butô tra Oriente e Occidente, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998

Watanabe Tamotsu, La danza giapponese, pp.29, Ali&no Editrice, Perugia, 2001

Ôno Kazuo, Kazuo Ôno ‘s world, from without and within, Endnotes, Tokyo, 1999, p. 303

Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro Nô, Milano, Adelphi Edizioni, 1966

 

http://www.butohkan.jp/

 

La psicologia del ritratto – il rapporto tra arte e identità

Ritratto e psicologia

“”Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano.” Van Gogh scriveva queste parole in una lettera al fratello Theo. Volendo esplorare il rapporto tra psicologia e arte del ritratto, Van Gogh è uno degli autori più interessanti da prendere in considerazione. Nel corso della sua breve vita dipinse quarantatré autoritratti, tra i quali alcuni dei più celebri sono l’autoritratto del 1889 su sfondo blu, e l’autoritratto con orecchio bendato del 1889.

Secondo Stefano Ferrari, professore di psicologia dell’arte presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, il ritratto e l’autoritratto in particolare, hanno a che fare con la rappresentazione che diamo di noi stessi al mondo, il processo attraverso il quale diamo un volto alla nostra identità.

Il problema, secondo Ferrari, è che la nostra identità spesso non coincide con la nostra immagine, ma necessariamente deve essere rappresentata e presentata agli altri attraverso di essa. Dobbiamo offrire un simbolo mediato della nostra essenza. Un processo spesso tormentato che ha a che fare con la formazione dell’immagine interna, che va oltre la propriocezione, la consapevolezza del corpo e del nostro Sé. Secondo l’Autore l’immagine interna sintetizza e racchiude modelli e ideali del Sé, sia interni che esterni. L’autoritratto nello specifico può essere visto come espressione del bisogno di rappresentare se stesso nelle proprie molteplici versioni, di darvi visibilità, maschere che risponderebbero al desiderio definito da Freud di “vivere una molteplicità di vite”.  Attraverso l’autoritratto l’artista può offrire all’osservatore diverse versioni di sé, travestendosi e modificando la propria identità, o può mettere in scena il conflitto, il dubbio e l’angoscia riguardo la propria esistenza, tipica degli artisti contemporanei, Van Gogh fra tutti. Per dipingere il proprio ritratto gli artisti devono confrontarsi con lo specchio, con il proprio doppio, ma soprattutto, facendo riferimento a Winnicott, con il rispecchiamento di sé nel volto dell’altro. Altro inteso come madre, la quale deve essere in grado di guardare il bambino e scorgere in esso una persona intera, rimandando all’infante questa immagine, contribuendo così alla costruzione del suo Sé. Infatti il rapporto con l’altro è fondamentale per la formazione della nostra identità. “Come il bimbo si vede (o non si vede) rispecchiato nel volto materno, così noi continuiamo a vederci attraverso gli occhi degli altri, o meglio attraverso l’immagine che immaginiamo che gli altri abbiano o debbano avere di noi.” (Ferrari, 2007) Secondo l’Autore nel rapporto con il ritratto e l’autoritratto entra in gioco il rapporto con la morte e la paura della morte sempre presente nell’uomo. L’idea di un doppio che possa sopravvivere alla caducità del corpo mortale aiuterebbe a superare la paura della fine. Per realizzare un autoritratto l’artista deve mettere in atto un meccanismo di difesa basato sullo sdoppiamento tra l’io soggetto e l’io oggetto, che viene guardato dall’esterno, riuscendo a guardare la propria immagine come quella di un estraneo. “Deve operare una sorta di (…) regressione controllata allo stadio dell’inconsapevolezza.” Ma questo processo, secondo Ferrari, avviene nella contemporanea consapevolezza dell’Io come unità, un Io che deve essere abbastanza maturo da tollerare questo momentaneo sdoppiamento.

Nel 2001 il neuroscienziato R.C. Miall dell’università di Oxford ha studiato il processo che permette ad un artista di trasformare le immagini visive del modello che intende ritrarre in un’immagine sulla tela. Per farlo hanno misurato i movimenti degli occhi e delle mani dell’artista al lavoro, paragonati con quelli compiuti nelle azioni quotidiane. Il tempo di osservazione dei dettagli dell’oggetto dipinto avevano il doppio della durata delle osservazioni compiute in un momento di riposo. Anche la coordinazione oculo manuale di un artista esperto è risultata differente e più prolungata nel tempo di un artista alle prime armi.

Per poter guardare se stessi è fondamentale poter guardare l’altro da sé, e attraverso il rapporto con l’altro noi formiamo un’immagine di noi stessi, che poi restituiamo al mondo. Negli autoritratti di Van Gogh possiamo osservare, forse, lo sforzo di oggettivare e di “fissare” sulla tela il tentativo combattuto, e mai del tutto compito, di dare una forma stabile al proprio Sé, in un continuo mutamento di percezioni ed emozioni, alla ricerca di una definizione della propria identità.

Articolo della dottoressa Valeria Colasanti
Alfa studio di psicologia Roma

Dalì e l’inconscio – un incontro surreale

“Nel periodo surrealista desideravo creare un’iconografia del mondo interiore, il mondo fantastico, quello del padre Freud. E ci sono riuscito!”  Salvador Dalì scrisse queste parole a proposito del contributo fondamentale che la psicoanalisi diede, senza avvedersene, al surrealismo. In occasione della mostra Dalí. Il sogno del classico, organizzata con la collaborazione della Fundación Gala-Salvador Dalí e MondoMostre, inaugurata il 1 ottobre e aperta al pubblico fino al 5 febbraio presso il Palazzo Blu di Pisa, abbiamo deciso di esplorare questo rapporto d’amore che da molti studiosi di arte è stato definito “a senso unico”.

La mostra presenta al pubblico oltre 150 opere provenienti dal Museo Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres, dal Dalí Museum di St. Petersburg in Florida, e dai Musei Vaticani, mostrando il grande legame che l’artista aveva con l’Italia e l’arte classica, quella rinascimentale e di Michelangelo in particolare.

Sono gli ultimi anni di attività del pittore, che segnano la sua svolta mistica e religiosa, che lui definiva la nuova era della pittura mistica, in cui riesce a coniugare la passione per la scienza, la religione e i maestri della pittura, come dimostrano quattro capolavori:  La Trinità, studio per il Concilio ecumenico del 1960, Paesaggio di Port Lligat, 1950, Sant’Elena a Port Lligat, 1956 circa e Angelo di Port Lligat, 1952. “Sono tutto invasato dai canoni geometrici, dalle misure, dalle proporzioni (…)”. Nel 1951 pubblica la sua opera  “Manifesto Mistico”; un manifesto che vuol essere una legittimazione della sua pittura di temi religiosi ispirati agli artisti rinascimentali che ammira.

Ma Dalì non avrebbe mai potuto cimentarsi con i classici “mastri” dell’arte se non fosse prima passato per il surrealismo e per le tortuose strade dell’inconscio e nel tentativo, magistrale, di rappresentarlo nella sua arte. Il Surrealismo per l’artista rappresentava l’occasione per far emergere il proprio inconscio, secondo quel principio dell’automatismo psichico teorizzato da Breton. E a questo automatismo psichico Dalí diede anche un nome preciso: metodo paranoico-critico. La paranoia, secondo Dalì è: «una malattia mentale cronica, la cui sintomatologia più caratteristica consiste nelle delusioni sistematiche, con o senza allucinazioni dei sensi. Le delusioni possono prendere la forma di mania di persecuzione o di grandezza o di ambizione». È solo grazie a questa fase, in cui le immagini nate nelle viscere dell’inconscio riescono ad essere fissare sulla tela, grazie ad una razionalizzazione del delirio, che lui definiva momento critico. Il primo quadro frutto di questo procedimento ideativo è “Il gioco lugubre”, del 1929, in cui un uomo, di spalle, indossa mutande sporche di escrementi, utilizzando una prospettiva dilatata e numerosi elementi tra cui uomini, animali, oggetti inanimati secondo dei processi di combinazione irrazionali, deformanti e sconcertanti.

Appare chiaro il debito che i surrealisti hanno con Freud e con l’inconscio. Fornisce ai surrealisti “armi insostituibili” (Breton, 1940, cit. in De Micheli, 1999, p.180). Breton stesso ne il Manifesto dei surrealisti afferma di dover ringraziare Freud e le sue scoperte perché grazie ad esse l’indagine umana può spingersi più lontano nel suo peregrinare.  “L’immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti. Se le profondità del nostro spirito racchiudono strane forze capaci d’aumentare le forze di superficie o di contrapporsi vittoriosamente ad esse: v’è tutto l’interesse a captarle prima, per poi sottometterle, se appare necessario, al controllo della nostra ragione. … Giustamente Freud ha condotto la sua critica sul sogno. È inammissibile infatti che questa considerevole parte dell’attività psichica … abbia ancora richiamato così poco l’attenzione” (Breton, 1924, cit. in De Micheli, 1999, p.328). Breton, contrariamente a Freud  pensava che fosse lo stato di veglia, e non il sonno, l’interferenza, essendo parte integrante dell’essenza dell’uomo. Dalì realizza la fantasia di Breton, ovvero di realizzare una fusione del sonno e della veglia, che rappresenta l’anima dell’arte surrealista. “Io credo nel futuro risolversi di questi due stati, in apparenza così contraddittori, sogno e realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire. È verso tale conquista che io muovo…” (Breton, 1924, cit. in De Micheli, 1999, p.331).

Sebbene la psicoanalisi e l’opera di Freud furono così importanti e profondamente influenti per lo sviluppo del momento surrealista, come abbiamo affermato in precedenza, questo amore fu a senso unico. Per spiegarvi la natura di questo sentimento non corrisposto vi riportiamo la descrizione dell’incontro che avvenne tra Freud e Dalì, a Londra nel 1938, al n°39 di Elsworthy Road. Il giovane Dalì aveva avuto una rivelazione artistica. Mentre era intento a degustare un piatto di escargòt capì che il cranio di Freud, del cui arrivo a Londra aveva appena letto sul giornale, era una gigantesca lumaca.  “Il suo cervello ha la forma di una spirale, pronto per essere estratto con uno stuzzicadenti!”. Grazie ad un suo ammiratore, l’autore Stefan Zweig, amico di Freud, riuscì ad ottenere un incontro con il suo grande maestro. Arrivato a casa del padre della psicoanalisi Dalì cominciò a disegnare la testa di Freud e contemporaneamente una lumaca. Viene riportato che Freud, mentre lo osservava dipingere disse a Zweig : “Questo ragazzo è proprio un fanatico. Ora capisco perché in Spagna c’è la guerra civile… se è popolata da individui del genere!”.  Il povero Zweig, per evitare ulteriori imbarazzi riuscì ad impedire a Dalì di mostrare quel disegno a Freud, dato che egli tra le altre cose soffriva già da anni di cancro, temendo che potesse offendersi per quel disegno.

Nonostante il brusco incontro Dalì continuo a stimare  Freud, e grazie a Zweig oggi possiamo ammirare l’elaborazione surrealista di Dalì del cranio del suo idolo. Lo scarso interesse di Freud per i surrealisti è riportato da lui stesso, in una lettera a Breton pubblicata in La Révolution Surréaliste: “Benchè io riceva tante testimonianze dell’interesse che voi e i vostri amici portate alle mie ricerche, io stesso non sono capace di spiegarmi che cosa sia e che cosa voglia il surrealismo. Può darsi che non sia fatto per capirlo, io che sono così lontano dall’arte” (Freud, 1932, cit. in De Micheli, 1999, p.180). In fondo Freud era anche contrario al cinematografo e non voleva che i suoi seguaci se ne occupassero, e anche in quel caso ha ispirato i più grandi registi del mondo.

Articolo a cura della dottoressa Valeria Colasanti

Per Approfondire:

Romm, S., & Slap, J.W. (1983). Sigmund Freud and Salvador Dalì: Personal Moments. American Imago, Vol.40 (4), 337-347

Breton, A. (1987). Manifesti del Surrealismo. Torino: Einaudi

Berlyne, D. E. (1971). Aesthetics and psychobiology. New York: Appleton-Century-Crofts