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Ultima seduta – the last session

Concludere  un percorso psicoterapeutico, durato magari diversi anni, è l’ultimo atto “terapeutico” che si compie all’interno del setting clinico. Terapeuta e paziente sono giunti al termine del loro percorso comune. In base alla mia formazione, al momento del contratto terapeutico, all’inizio di una psicoterapia o di un percorso di consulenza, non viene fornito un termine, questo perché la relazione è il primo elemento che concorre alla cura della persone che si è rivolta al professionista. All’interno di essa, come attraverso pagine di un romanzo di cui ci siamo limitati a leggere la quarta di copertina, si svolgeranno tutte le vicende, verrà narrata e poi ri-narrata la storia del paziente, verranno messi in atto degli agiti, e la realtà irromperà diverse volte nel setting, ricordando che il qui ed ora è legato inevitabilmente al “lì ed allora” del passato della persona che si trova con noi nel campo analitico.

 

Durante tutto il percorso terapeutico il clinico e il paziente affrontano continuamente la separazione. La fine di ogni seduta è una piccola cesura, che mette alla prova la possibilità di mantenere il rapporto con l’oggetto, anche se esso non è presente fisicamente. Un esempio di una buona relazione oggettuale. Prove più lunghe di separazione e di tolleranza alla frustrazione che essa può indurre nel paziente sono le pause, estive e invernali, che vengono stabilite all’inizio del percorso insieme. La differenza sta nel fatto che questa volta la separazione sarà definitiva. Spesso questa consapevolezza può condurre il paziente a sviluppare diversi tipi distinti di comportamento: nel primo caso mostrerà un atteggiamento di gratitudine nei confronti del terapeuta, altrimenti prenderà in rassegna tutto il loro trascorso insieme, evidenziando colpe e mancanze del clinico. È anche possibile che il paziente sviluppi un una nuova dipendenza verso il terapeuta, producendo fantasie di unione con lui. In ogni caso è importante che la fine della terapia avvenga in modo tollerabile, facendo sì che non vengano riprodotte situazioni traumatiche di separazione di cui la persona possa essere stata oggetto.

Offrire al paziente la possibilità di elaborare le sue reazioni alla fine del percorso terapeutico gli permetterà di riconciliarsi con il clinico, accettandone limiti e mancanze, potendo in tal modo vedere in modo non minaccioso le proprie. Per quanto le reazioni possano essere di diverso tipo, secondo Michael Fordham, alcuni sentimenti tendono a caratterizzare questa fase delle terapie: rimpianto, tristezza e gratitudine. Rimpianto per quegli obiettivi che non sono stati raggiunti, la tristezza per la perdita oggettiva del rapporto con il clinico e infine la gratitudine per ciò che invece è stato fatto. Tutto questo non coinvolge soltanto il paziente, ma anche lo psicoterapeuta, che è stato coinvolto allo stesso modo nel percorso, anche lui “non può sottrarsi alla tristezza della separazione”.

Possiamo affermare che una terapia non finisca con la conclusione delle sedute, perché ogni buon percorso terapeutico continuerà nella mente del paziente, grazie alla capacità di mentalizzazione e di autoanalisi che egli avrà potuto sviluppare all’interno del percorso clinico. Secondo Fordham dopo l’analisi il paziente entra in una fase post – analitica in cui “la sua identificazione con l’analista continua a richiedere un periodico rinforzo prima che il paziente possa stabilizzarsi sulle nuove posizioni che l’analisi gli ha permesso di raggiungere.”

Sigmund Freud, nel testo fondamentale “Analisi terminabile e interminabile” del 1937 affermava che si può ritenere conclusa la terapia quando il paziente ha superato sintomi, angosce, inibizioni e lo psicoanalista ritiene che il recupero del materiale rimosso e il superamento delle resistenze non rendano più probabile la malattia.

Ma c’è un secondo significato di “fine di un’analisi”, più ambizioso: giudicare che il proseguimento dell’analisi non possa produrre ulteriori cambiamenti. “Solo in casi di eziologia prevalentemente traumatica l’analisi può dare il meglio di sé… sostituire con una soluzione corretta la decisione inadeguata che è stata presa nel lontano passato: questa sarebbe un’analisi definitivamente portata a termine, ovvero conclusa.

I sintomi nevrotici in realtà hanno una eziologia mista (“forza delle pulsioni” – “traumi antichi”) e talvolta quindi non si ottengono risultati troppo ambiziosi: comunque “la via per corrispondere alle richieste sempre maggiori che vengono rivolte alla cura analitica non porta all’accorciamento della durata di quest’ultima, né vi passa attraverso”.

In termini generali possiamo affermare, citando Alexander, che la terapia offra al paziente una “esperienza emozionale correttiva”, e questa esperienza, che secondo Migone spesso non produce insight nel paziente, deve necessariamente conoscere un termine, anche se non sempre può corrispondere al raggiungimento di una analisi completa.

In analisi è previsto un periodo finale detto termination, in cui paziente e analista si accordano sulla data in cui porre termine alle sedute. Il clinico osserva le reazioni prodotte nel e dal paziente alla consapevolezza della fine della terapia. “Nuove configurazioni emotive e movimenti transferali” emergeranno “legati al tema della separazione e alla capacità del paziente di interiorizzare i risultati raggiunti, proprio come accade in terapia breve. Quindi la psicoanalisi, che inizia open ended, cioè senza fissare un data per la fine della terapia, esponendo così il paziente ad una esperienza di accettazione “illimitata” per analizzarne le reazioni transferali, con la inevitabile fase di termination espone il paziente anche allo stimolo opposto, quello della fine del rapporto.”

La tolleranza a questo tipo di frustrazione può essere considerato un indice della sua capacità di interiorizzare l’oggetto buono e potersi separare dall’altro. Credo di poter attribuire un significato simbolico a questo mio ultimo articolo per questa rivista, e di poterla considerare, in senso lato, la fine di una relazione clinica tra me e il pubblico della stessa. Anche in questo caso anche il clinico deve elaborare i sentimenti che si accompagnano alla fine di una relazione.

Per Elisa – la dipendenza patologica

Per Elisa – la dipendenza patologica

“Per Elisa, vuoi vedere che perderai anche me…” Alice esordisce al 31° Festival di Sanremo con queste p“Per Elisa, vuoi vedere che perderai anche me…” Alice esordisce al 31° Festival di Sanremo con queste parole, nel lontano 1981; scritte da Battiato, Giusto Pio e la cantante stessa. Per Elisa, il cui testo è stato composto in antitesi alla celebre bagatella di Beethoven, sembra il lamento graffiante e furioso di una donna tradita, rimpiazzata da un’altra che ha reso l’uomo conteso una sorta di schiavo d’amore. arole, nel lontano 1981; scritte da Battiato, Giusto Pio e la cantante stessa. Per Elisa, il cui testo è stato composto in antitesi alla celebre bagatella di Beethoven, sembra il lamento graffiante e furioso di una donna tradita, rimpiazzata da un’altra che ha reso l’uomo conteso una sorta di schiavo d’amore.

“per Elisa non sai piu’ distinguere che giorno è

e poi non e’ nemmeno bella.

Per Elisa

paghi sempre tu e non ti lamenti

per lei ti metti in coda per le spese

e il guaio è che non te ne accorgi.”

Già, un triangolo amoroso, nulla di più. Eppure “Per Elisa” viene scritta e interpretata proprio durante l’epidemia dell’abuso di eroina che investì l’Europa intera negli anni ‘80. Secondo alcuni, sebbene gli autori stessi lo abbiano sempre negato, il testo può essere interpretato come un’accorata denuncia di ciò che comporta la dipendenza da sostanze.

“Con Elisa

guardi le vetrine e non ti stanchi

lei ti lascia e ti riprende come e quando vuole lei

riesce solo a farti male.

Vivere vivere vivere non e’ piu’ vivere

lei ti ha plagiato, ti ha preso anche la dignita’.

Fingere fingere fingere non sai piu’ fingere

senza di lei ti manca l’aria.

Senza Elisa

non esci neanche a prendere il giornale

con me riesci solo a dire due parole…”

Indipendentemente dal fatto che questa interpretazione sia esatta o meno, e che facciate parte di coloro che vedono in questa canzone una denuncia sociale, oppure no, “Per Elisa” può essere letta come una vivida e sofferta descrizione di una relazione di dipendenza. Una dipendenza in cui l’Io del protagonista non può più vivere senza l’oggetto della sua ossessione. Anche una relazione può generare dipendenza. Secondo Lingiardi (2009) anziché fare riferimento alla polarità dipendenza – indipendenza, bisognerebbe fare riferimento al costrutto di dipendenza sana e di dipendenza patologica. Ciò perché un individuo sano, indipendente, poggia la propria indipendenza sulla capacità di dipendere da altre persone, e di permette ad altri di dipendere da sé. In questa ottica la dipendenza patologica può essere letta come “non negoziabile (…) in una ricerca disperata dell’altro visto come unico regolatore degli stati del Sé”. Ovvero che senza l’altro non riusciamo a funzionare:

 “senza di lei ti manca l’aria.

Non esci neanche a prendere il giornale.

Riesci solo a dire due parole.”

Una conferma in questo senso arriva anche dal campo delle neuroscienze. Le relazioni caratterizzate da dipendenza patologica creano dipendenza da un punto di vista chimico. Secondo Mitchell (2000) “Le esperienze precoci creano dipendenza anche a causa dei loro concomitanti neurochimici.” Ogni esperienza affettivamente intensa è accompagnata da rilascio di endorfine. Secondo Hofern (2006) il bambino ha bisogno della madre per la propria regolazione fisiologica. All’interno della diade madre – bambino avvengono processi regolatori nascosti che, in parole molto semplici, fanno funzionare il sistema nervoso dell’infante. Ma questo funzionamento è dovuto al funzionamento della coppia. In uno sviluppo ideale e sano il bambino dovrebbe con il tempo acquisire la capacità di regolarsi da solo, “interiorizzando” questi processi di regolazione. Il soggetto riesce a farlo in base alla complessa interazione di tre componenti fondamentali: la maturazione fisiologica, “l’interiorizzazione delle componenti affettive-cognitive della relazione e l’influenza delle altre relazioni” che sperimenterà nel corso della sua esistenza. In questo senso, la dipendenza può essere interpretata come la “ricerca di un apporto esterno di cui il soggetto ha bisogno per il proprio equilibrio e che non può trovare a livello delle sue risorse interne.” Quindi l’uomo cantato da Alice potrebbe aver trovato un oggetto d’amore del quale essere dipendente per funzionare, di cui non può fare a meno per esistere, esattamente come se si trattasse di una sostanza psicotropa. Come nel 1981 questa canzone era attuale perché, involontariamente o meno, raccontava il dramma dei suoi giorni, anche oggi “Per Elisa” racconta il disagio della dipendenza patologica dall’altro, in un mondo di relazioni sempre più estreme, caratterizzate da un lato dal controllo totale dell’altro, nella vita quotidiana e nel sesso, fino all’abbandono completo e alla trascuratezza emotiva.

 “ma noi un tempo ci amavamo”

Conclude Alice. E leggiamo queste parole come un’ultima speranza, che possa esistere un amore sano, una dipendenza sana, libera e “reversibile”, in una dimensione di coppia in cui si possa funzionare anche insieme e “non solo” .

Per Approfondire:

Pally R. (1999). Il rapporto mente-cervello. Roma, Giovanni Fioriti, 2003.

Lingiardi V., Amadei G., Caviglia G., De Bei F. (2011). La svolta relazionale. Milano, Cortina.

Liotti, G., Farina B. (2011). Sviluppi traumatici: eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Milano, Cortina,

Vittorio Lingiardi, “Personalità dipendente e dipendenza relazionale: aspetti diagnostici, descrittivi e dinamici”, in Caretti V., La Barbera D.,  Le dipendenze. Milano, Cortina, 2005

https://it.wikipedia.org/wiki/Alice_(cantante)

 

John Bowlby

 

2 settembre

John Bowlby, psicologo e psicoanalista britannico, è morto il 2 settembre 1990. Ha elaborato la Teoria dell’Attaccamento. Secondo l’Autore, l’attaccamento ha la funzione di garantire la vicinanza e la “protezione” della figura di attaccamento. Tali legami svolgono quindi una funzione fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo. L’attaccamento, non essendo influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo dopo essersi strutturato nei primi mesi di vita intorno ad un’unica figura; è molto probabile che tale legame si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino.