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Che cos’è il trauma – elaborarlo a partire dal corpo

Che cos’è il trauma? Per Freud con l’espressione “traumatico” noi designamo un’esperienza che in breve tempo fornisce troppi stimoli alla vita psichica, e per tale condizione la sua elaborazione non riesce, portando a “disturbi permanenti nell’economia della psiche”. Secondo la teoria freudiana il trauma rivestiva un ruolo causale in molte patologie psichiche.

Ma il trauma oltre a colpire la psiche colpisce il soma, il corpo.

È il corpo che mette in scena e rappresenta il trauma, e che spesso, se ne fa portatore. Uno dei segni distintivi della traumatizzazione è la disregolazione degli stati emozionali e di arousal (attivazione corporea).
Il termine arousal (stato di attivazione) si riferisce alla possibilità e modalità dell’organismo di reagire a vari stimoli, variando parametri quali la frequenza cardiaca la respirazione, la sudorazione. Queste reazioni sono legate a uno dei principali substrati anatomici della vigilanza, ovvero la capacità di restare svegli, la formazione reticolare ascendete.

Autoritratto Egon Schiele

Essa è una proiezione verso la corteccia dei centri regolatori dell’arousal che si trovano nel tronco encefalico. Secondo MacLean questa parte del cervello è definita protorettiliana, e ad essa appartengono le reazioni viscerali per la conservazione della vita.
È un cervello che reagisce rapidamente agli stimoli minacciosi, attraverso la via del sistema neurovegetativo. Se uno stimolo raggiunge una intensità adeguata viene processato dal cervello rettiliano che modula l’arousal e dal cervello paloemammaliano (sistema limbico) che attiva la paura, e da quello neomammaliano (corteccia) che valuta in modo consapevole il pericolo percepito.

Le strutture cerebrali superiori agiscono in senso regolatorio su quelle inferiori, in particolare per la capacità di inibirne le reazioni.

“Un trauma è in grado di alterare la connessione tra le strutture cerebrali e la capacità auto-regolatorie del sistema nervoso centrale e autonomo.”
Il segno più chiaro della traumatizzazione è la disregolazione degli stati di arousal. Ciò che è traumatico quindi causa in breve tempo un sovraccarico per i sistemi neurobiologici di regolazione, esattamente come intuito da Freud a livello psicodinamico, così accade a livello somatico.

Un evento meno traumatico ha un potenziale traumatizzante su un sistema nervoso in crescita, per questo nella prima infanzia sono pericolosi anche quegli eventi non molto intensi che si ripetono nel tempo, come un maltrattamento o un disturbo dell’attaccamento. Perché non permettono lo stabilirsi di connessioni tra le varie parti del cervello che ci permettono di regolare l’arousal e quindi la reazione agli eventi.

Un arousal disregolato causa la dissociazione tra aree del cervello solitamente collegate, che funzionando in concerto sono in grado di elaborare efficacemente lo stimolo. Questa condizione può essere transitoria o meno a seconda della gravità e precocità della traumatizzazione. Quando invece questa attività non è possibile lo stimolo non viene elaborato, divenendo “memoria traumatica inscritta nel corpo, non processata”.

Secondo quanto evidenziato dalla risonanza magnetica funzionale, nelle dissociazioni traumatiche che portano a stati di iper e ipoattivazione traumatica la connettività tra la corteccia prefrontale e le strutture sottocorticali è risultata alterata. Ciò impedisce la normale funzione di inibizione dell’iperattivazione, impedendo la possibilità di discriminare lo stimolo e di mentalizzare l’evento.

L’area di Broca, necessaria al linguaggio, è disattivata, il che rende impossibile accedere al trauma tramite la parola, perché non è disponibile a livello funzionale. Per questo le talking therapies non sono in grado di far integrare al paziente la memoria traumatica, perché la parola, funzionalmente, non era disponibile al momento del trauma, e ogni volta che il paziente rievocherà in qualche modo elementi di quell’evento traumatico, nel suo cervello si riproporrà lo stesso pattern di funzionamento cerebrale.

Per integrare l’esperienza traumatica bisogna passare dal corpo. La psicoterapia sensomotoria abbraccia questo approccio. La psicoterapia sensomotoria è un approccio clinico centrato sul corpo sviluppato da Pat Ogden negli anni ’80, basato su due principi fondamentali: “regolare gli stati emozionali e sensomotori attraverso la relazione terapeutica e insegnare al paziente ad autoregolarsi attraverso il contatto, il tracking, e l’articolazione dei processi sensomotori attraverso la mindfulness.”

Il paziente è guidato dal terapeuta, che gl offre una occasione di regolazione tramite il social engagement, concentrandosi sulle sensazioni del corpo osservandole e sviluppandole. È un approccio bottom – up, il quale si concentra sugli aspetti legati al funzionamento del cervello proto-rettiliano. Si parte dalle sensazioni somatiche per arrivare alle emozioni e all’attività cognitiva per arrivare all’elaborazione dell’esperienza traumatica.

http://www.psicosoma.eu/calendario-formazione.htmPsicosoma.eu

Dott.ssa Valeria Colasanti
riceve a Roma
alfastudiopsicologia@gmail.com
3488197748

Per Approfondire

G. Tagliavini “Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma” Cognitivismo clinico (2011) 8, 1, 60 – 72
B. Van der Kolk “Il corpo accusa il colpo” Raffaello Cortina ed. Milano – 2015

trauma e arte

Trauma e arte al femminile – Frida, Camille e Artemisia

Trauma e arte al femminile – Frida, Camille e Artemisia

 

“Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…  il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.” Con queste parole Frida Kahlo, pittrice messicana nata a Coyoacán il 6 luglio 1907, racconta due eventi, traumatici e “bellissimi”, che hanno condizionato tutta la sua esistenza, personale e artistica. Quando aveva soltanto 18 anni Frida rimase coinvolta in un incidente; uno scontro tra l’autobus sul quale stava viaggiando e un tram. “Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro.” L’incidente le procurò due vertebre fratturate, tre fratture del bacino, undici al piede destro, una ferita profonda all’addome che negli anni le avrebbe impedito di portare a termine tre gravidanze. I mesi successivi dovette trascorrerli a casa, bloccata in un busto di gesso. Fu allora, in quella condizione di dolorosa immobilità, che Frida si avvicinò all’arte, alla sua finestra sul mondo dal quale era stata strappata via. Della propria arte disse: “La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore.” Il secondo incidente a cui l’artista si riferisce è la relazione con il marito Diego Rivera, artista e muralista messicano di grande fama, che all’epoca dell’incontro con Frida aveva già due matrimoni alle spalle e quattro figli. La relazione con Diego condusse Frida a provare le più grandi gioie e i più profondi tormenti della sua vita, costantemente tradita dal marito, persino con sua sorella, se ne separò nel 1934 senza mai divorziare. Il loro legame indissolubile, nella sanità di corpo e anima, come nel dolore, viene rappresentato da Frida nell’opera “L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego, e il signor Xòlot” del 1949, sei anni prima della morte dell’artista. In quest’opera Frida rappresenta la maternità; la sua maternità, nei confronti del compagno Diego, rappresentato come un bambino-adulto, nudo tra le sue braccia. Sulla fronte di lui è rappresentato un occhio, simbolo di saggezza. L’occhio permette l’unione e la continuità del rapporto fra i due. Dietro agli sposi si staglia la dea Madre azteca, Cihuacoatl, scolpita nella pietra. Alle spalle della statua e dei due protagonisti è rappresentata la Madre Universale, che a sua volta li abbraccia e li contiene.

 

trauma e arte

 

Un utero universale in grado di contenere la coppia simbiotica e portare a “termine” il loro rapporto. In primo piano, sulla sinistra, è ritratto il cane di Frida, Itzcuintli Señor Xolotl, che rappresenta Xolotl, il guardiano del mondo dei morti, che ha preso la forma del cane per poter osservare il mondo terrestre. Sul suo dorso i morti vengono trasportati di notte nel mondo degli inferi. Il richiamo alla morte è presente in ogni opera della Kahlo, come retaggio culturale, e come elaborazione personale. In un percorso di vita in cui il confronto con lo “smembramento” simbolico e reale del corpo somatico è una costante, dall’incidente fino all’amputazione della gamba che ella dovrà subire. Il talamo nuziale diviene bara, cavalletto dell’artista e porta sul mondo interno. Ed è proprio da un letto che Frida partecipò alla sua prima mostra personale. La sua resilienza eccezionale le permise di trasformare quel letto in una piattaforma di esplorazione universale, superando i limiti che il caso o il destino le hanno presentato ben presto nel suo percorso di vita.

 

Come Frida, anche Camille Claudel ha attraversato i tormenti di una relazione d’amore “impossibile”, con il suo mentore e maestro, August Rodin. In una lettera indirizzata a Anne Rieviére e Bruno Gaudichon ella scrisse: “Ha ragione a pensare che io non sia molto felice, qui: mi sembra di essere così lontana da lei! e di esserle completamente estranea! C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta.”

Il tormento e l’estasi sono condizioni antitetiche che condizionano la vita e la produzione artistica di Camille. Conobbe Renoir nel 1883, divenendo la sua collaboratrice prima e l’amante poi, trovando in lui un padre oltre che un maestro. Realizzò diverse opere ispirate alla loro passione erotica, passione offuscata per un breve periodo dall’avvicinamento al musicista Debussy, al rapporto con il quale sarebbe ispirata una delle sue opere più famose, “La Valse”, una danza tra un uomo e una donna, tra la rappresentazione di eros e thanatos, che termina in una spirale mortifera appena abbozzata nel bronzo. Ma ben presto Renoir la volle di nuovo al suo fianco e Camille abbandonò tutto per seguirlo. Nonostante questo, nel 1892 la loro relazione affronta una nuova crisi; l’artista realizza che Renoir non lascerà mai la moglie e la sua illusione di poter ufficializzare il loro rapporto si infrange. Apparentemente è questo abbandono che la Claudel mette in scena nell’opera “L’Âge Mûr” (L’Età matura), opera inizialmente realizzata in gesso nel 1895 e poi fatta realizzare in bronzo dal committente diversi anni dopo. In questo gruppo scultoreo viene rappresentata una giovane donna, che in ginocchio tenta invano di trattenere una figura maschile che si allontana inesorabilmente, avviluppata da una figura femminile, il cui drappeggio evoca la forma di un’ala, che rappresenta secondo alcuni la morte, secondo altri la moglie di Rodin, mettendo al centro della scena lo stesso scultore, che abbandona la sua giovane amante.

 

 

Un’interpretazione psicoanalitica dell’opera è stata proposta da Luca Trabucco, secondo il quale l’abbandono rappresentato da Camille non è quello subito da parte dell’amante, ma un abbandono vissuto durante l’infanzia. Il rapporto dell’artista con la figura materna è tormentato. Quando la giovane decide di internarsi in manicomio dopo la morte del padre, la donna non va mai a farle visita; quando i medici decidono di dimetterla la madre si oppone. Delusa dalla figura femminile, Camille, in questa interpretazione, si sarebbe rivolta al padre, idealizzato, che apparentemente la sostiene, ma la rende fragile in virtù del suo trionfo edipico che le impedisce un’identificazione positiva con la madre e la femminilità. Potremmo leggere in quest’opera un tradimento culturale, non solo relazionale e umano, di una grande artista mai riconosciuta in vita. Quell’uomo che le volta le spalle è proprio l’Accademia, che si ostina a non vedere il grande talento espressivo e artistico di Camille.

Tornando ancora più indietro nel tempo nel nostro viaggio alla scoperta del rapporto tra arte al femminile e trauma incontriamo Artemisia Gentileschi. Figlia del pittore Orazio, viene fin da piccola spronata a seguire il suo amore per la pittura. Venne affidata all’amico di famiglia Agostino Tassi per la sua educazione artistica, ma nel 1611 egli abusò di lei. La testimonianza della violenza resa da Artemisia al processo è vivida e cruda nei dettagli, aspetti che ritornano nella sua produzione artistica di ispirazione caravaggesca. “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”. Durante il processo Artemisia, per dimostrare di aver detto il vero, viene sottoposta a tortura. Le venivano schiacciati i pollici fino a rischiare di fratturarli, per mettere alla prova la sua buona fede. Con la sua proverbiale resistenza, fisica e psichica, Artemisia non si arrende e vince il processo. Il suo aggressore viene condannato a diversi anni di carcere. Questa esperienza segna indelebilmente la vita e l’opera dell’artista. Un ritratto sanguigno, violento, dinamico e drammatico è quello che Artemisia elabora delle vicende bibliche che ritrae nelle sue opere, più realistico rispetto all’arte dell’epoca. Nella tela “Giuditta e Oloferne” questi elementi sono evidenti. Giuditta, in cui l’artista si ritrae, è rappresentata nell’atto di trafiggere la giugulare di Oloferne, rappresentazione di Agostino, a cui la giovane taglia la testa. Il pugno chiuso con cui la donna tiene ferma la testa di Oloferne, mentre affonda il coltello nella carne del suo collo evoca con dovizia di particolari la violenza della scena, della quale si potrebbe percepire persino l’odore di sangue. Altrettanto “brutale” e trionfante è Artemisia nel suo percorso artistico, che la condusse a essere riconosciuta nelle corti europee come alla pari dei suoi colleghi uomini.

 

 

 

Questi tre ritratti femminili rappresentano idealmente il rapporto tra trauma e resilienza, in tre percorsi personali in cui l’arte diviene strumento e tramite dell’elaborazione del vissuto traumatico. Arte come espressione del trauma, arte come strumento per elaborarlo e superarlo. L’arte rende sostenibile o addirittura allontana, almeno temporaneamente, il dolore e raggiungere la felicità. “Scrivere è un piacere profondo… nessuno potrà dire di me ch’io non abbia conosciuto la perfetta felicità… non saprei immaginare nulla di meglio.” Scrisse Virginia Woolf.

 

articolo a cura della dottoressa Valeria Colasanti